EVANGELII GAUDIUM
51.
Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà
contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità
di studiare i segni dei tempi». Si tratta di una responsabilità grave,
giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono
innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile tornare
indietro. È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche
ciò che nuoce al progetto di Dio. Questo implica non solo riconoscere e
interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e
qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere
quelle dello spirito cattivo.
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 313-316.
AMORIS LAETITIA
94.
Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che
l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il
verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio
di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole».[106] In questo modo può mostrare tutta
la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la
nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare,
senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.
[106]
Esercizi spirituali, Contemplazione per raggiungere l’amore, 230.
207. Invito le comunità cristiane a riconoscere che
accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse.
Come hanno detto bene i Vescovi d’Italia, coloro che si sposano sono per la
comunità cristiana «una preziosa risorsa perché, impegnandosi con sincerità a
crescere nell’amore e nel dono vicendevole, possono contribuire a rinnovare
il tessuto stesso di tutto il corpo ecclesiale: la particolare forma di
amicizia che essi vivono può diventare contagiosa, e far crescere
nell’amicizia e nella fraternità la comunità cristiana di cui sono parte». Ci
sono diversi modi legittimi di organizzare la preparazione prossima al
matrimonio, e ogni Chiesa locale discernerà quale sia migliore, provvedendo
ad una formazione adeguata che nello stesso tempo non allontani i giovani dal
sacramento. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli
con troppi argomenti. Anche in questo caso, infatti, vale che «non il
molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare
interiormente le cose».[240] Interessa più la qualità
che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio
del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in
modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la
vita «con animo grande e liberalità».[241] Si tratta
di una sorta di “iniziazione” al sacramento del matrimonio che fornisca loro
gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e
iniziare con una certa solidità la vita familiare.
[240] Ignazio
di Loyola, Esercizi Spirituali, annotazione 2.
[241] Ibid.,
annotazione 5.
GAUDETE ET EXSULTATE
20. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e
si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in
unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla morte e
risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere
continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria
esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la
vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni
del suo donarsi per amore. La contemplazione di questi misteri, come
proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre
scelte e nei nostri atteggiamenti.[18] Perché «tutto nella vita di Gesù è segno del suo
mistero», «tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre», «tutta la vita
di Cristo è mistero di Redenzione», «tutta la vita di Cristo è mistero di
ricapitolazione», e «tutto ciò che Cristo ha vissuto fa sì che noi possiamo
viverlo in Lui e che Egli lo viva in noi».
[18] Cfr Esercizi spirituali,
102-312.
69.
Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza”
che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella
libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti
verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del
nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da
parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà,
più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e
così in tutto il resto».[68]
[68] Esercizi
spirituali, 23d: Roma 19846, 58-59.
153.
Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di
Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di
memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza
dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia,
la preghiera è intessuta di ricordi. Non solo del ricordo della Parola
rivelata, bensì anche della propria vita, della vita degli altri, di ciò che
il Signore ha fatto nella sua Chiesa. E’ la memoria grata di cui pure parla
sant’Ignazio di Loyola nella sua «Contemplazione per raggiungere l’amore»,[116] quando ci chiede di riportare
alla memoria tutti i benefici che abbiamo ricevuto dal Signore. Guarda la tua
storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso
tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti
tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso
chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che
a Lui non sfuggono.
[116] Cfr Esercizi spirituali, 230-237.
169.
Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando
bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una
decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore.
Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua
grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere
il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in
ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose
semplici e quotidiane. Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il
meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo,
sull’impegno di oggi. Pertanto chiedo a tutti i cristiani di non tralasciare
di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame
di coscienza. Al tempo stesso, il discernimento ci conduce a riconoscere
i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore,
perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni.
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.
MEDITAZIONE MATTUTINA
16 maggio 2013
Ecco allora che
per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai,
ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze
sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo
fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi
torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento
cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».
Papa Francesco ha
poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di
Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me,
cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo
zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore
non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia
spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».
Cfr «Esercizi spirituali», n. 53.
MEDITAZIONE MATTUTINA
21 maggio 2013
Il Papa ha poi
posto l’accento sul linguaggio che si usa abitualmente quando si intende
sottolineare i passaggi di carriera: «Quando a una persona danno una carica
che secondo gli occhi del mondo è una carica superiore, si dice: Ah, questa
donna è stata promossa a presidente di quell’associazione; e questo uomo è
stato promosso». Promuovere: «Sì — ha commentato — è un verbo bello. E si
deve usare nella Chiesa, sì: questo è stato promosso alla croce; questo è
stato promosso all’umiliazione. Questa è la vera promozione. Quella che ci fa
assomigliare meglio a Gesù». Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, «ci
fa chiedere al Signore crocifisso la grazia delle umiliazioni: Signore voglio
essere umiliato, per assomigliare meglio a te. Questo è l’amore, è il
potere di servizio nella Chiesa. E si servono meglio gli altri per la strada
di Gesù» ha detto il Papa.
Cfr «Esercizi spirituali», nn.
146-147.167
OMELIA IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SANT'IGNAZIO
31 luglio 2013
Lo
stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus
Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà
dirmi: lo sappiamo molto bene! Ma questo stemma ci ricorda continuamente una
realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno
di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di
Gesù” per indicare il punto di riferimento. Del resto anche all’inizio
degli Esercizi Spirituali, ci pone di fronte a nostro Signore Gesù Cristo, al
nostro Creatore e Salvatore (cfr EE, 6).
E questo porta noi Gesuiti e tutta la Compagnia ad essere “decentrati”, ad
avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper
maior”, l’”intimior
intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una
certa kenosis, ad “uscire dal proprio
amore, volere e interesse” (EE, 189). Non è scontata la domanda per noi,
per tutti noi: è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al
centro della mia vita? Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere
noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo,
sbaglia.
Nella
prima Lettura, Mosè ripete con insistenza al popolo di amare il Signore, di
camminare per le sue vie, “perché è Lui la tua vita” (cfr
Dt 30,16.20). Cristo è la
nostra vita! Alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della
Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire
Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa. E anche in questo caso noi
Gesuiti e l’intera Compagnia non siamo al centro, siamo, per così dire,
“spostati”, siamo al servizio di Cristo e della Chiesa, la Sposa di Cristo
nostro Signore, che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica (cfr EE, 353). Essere uomini radicati e fondati nella
Chiesa: così ci vuole Gesù. Non ci possono essere cammini paralleli o
isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante:
andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività,
ma sempre in comunità, nella Chiesa, con questa appartenenza che ci dà
coraggio per andare avanti. Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e
servirla con generosità e spirito di obbedienza.
Qual
è la strada per vivere questa duplice centralità? Guardiamo all’esperienza di
san Paolo, che è anche l’esperienza di sant’Ignazio. L’Apostolo, nella
Seconda Lettura che abbiamo ascoltato, scrive: mi sforzo di correre verso la
perfezione di Cristo “perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil
3,12). Per Paolo è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa
di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da
Cristo. Io cerco Gesù, io servo Gesù perché Lui mi ha cercato prima, perché
sono stato conquistato da Lui: e questo è il cuore della nostra esperienza.
Ma Lui è primo, sempre.
In
spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. E’ primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è
arrivato e ci aspetta. E qui vorrei richiamare la meditazione sul Regno nella
Seconda Settimana. Cristo nostro Signore, Re eterno, chiama ciascuno di noi
dicendoci: “chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi
nella sofferenza, mi segua anche nella gloria” (EE, 95): Essere
conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta
la nostra fatica (cfr EE, 96); dire
al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo
nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà (cfr
EE, 98). Ma penso al nostro fratello in Siria in questo momento.
Lasciarsi conquistare da Cristo significa essere sempre protesi verso ciò che
mi sta di fronte, verso la meta di Cristo (cfr Fil
3,14) e chiedersi con verità e sincerità: Che cosa ho fatto per Cristo?
Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo? (cfr EE, 53).
E
vengo all’ultimo punto. Nel Vangelo Gesù ci dice: “Chi vuole salvare la
propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
salverà… Chi si vergognerà di me…” (Lc 9, 23). E così via. La vergogna del
Gesuita. L’invito che fa Gesù è di non vergognarsi mai di Lui, ma di seguirlo
sempre con dedizione totale, fidandosi e affidandosi a Lui. Ma guardando a
Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto
guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano
e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla
sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla
nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e
alla nostra cattiveria (cfr EE, 59).
Chiedere la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio
di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo;
vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato
per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci
accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”.
LETTERA AL PRESIDENTE DELLA
CONFERENZA EPISCOPALE ARGENTINA
IN OCCASIONE DELLA BEATIFICAZIONE DI PADRE JOSÉ GABRIEL BROCHERO
14 settembre
2013
Mi
piace immaginare oggi Brochero parroco sulla sua
mula dalla frangetta bianca (malacara), mentre
percorreva i lunghi sentieri aridi e desolati dei duecento chilometri quadrati
della sua parrocchia, cercando casa per casa i vostri bisnonni e trisnonni,
per chiedere loro se avevano bisogno di qualcosa e per invitarli a fare gli esercizi
spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Conobbe ogni angolo della sua
parrocchia. Non rimase in sacrestia a pettinare pecore […]
José
Gabriel Brochero incentrò la sua azione pastorale
sulla preghiera. Appena giunse alla sua parrocchia, cominciò a portare uomini
e donne a Córdoba per fare gli esercizi spirituali con i padri
gesuiti. Con quanto sacrificio prima attraversavano le Sierras
Grandes, innevate in inverno, per andare a pregare
nella capitale Córdoba! E poi, quanto lavoro per costruire la Santa Casa
degli Esercizi nella sede parrocchiale! Lì, una lunga preghiera davanti
al crocifisso per conoscere, sentire e assaporare l’amore tanto grande del
cuore di Gesù e poi tutto culminava con il perdono di Dio nella confessione,
con un sacerdote pieno di carità e di misericordia. Moltissima misericordia!
Questo
coraggio apostolico di Brochero pieno di zelo
missionario, questo ardire del suo cuore compassionevole come quello di Gesù
che gli faceva dire: «Guai se il diavolo mi ruba un’anima!», lo spinse a
conquistare a Dio anche persone di malaffare e compaesani difficili. Si
contano a migliaia gli uomini e le donne che, grazie al lavoro sacerdotale di
Brochero, abbandonarono il vizio e le liti. Tutti
ricevevano i sacramenti durante gli esercizi spirituali e, con essi,
la forza e la luce della fede per essere buoni figli di Dio, buoni fratelli,
buoni padri e madri di famiglia, in una grande comunità di amici impegnati
nel bene di tutti, che si rispettavano e aiutavano gli uni gli altri.
AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DELLA
CONGREGAZIONE
PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA (DEGLI ISTITUTI DI STUDI)
13 febbraio
2014
L’educatore
nelle scuole cattoliche dev’essere anzitutto molto competente, qualificato, e
al tempo stesso ricco di umanità, capace di stare in mezzo ai giovani con
stile pedagogico, per promuovere la loro crescita umana e spirituale. I
giovani hanno bisogno di qualità dell’insegnamento e insieme di valori, non
solo enunciati, ma testimoniati. La coerenza è un fattore indispensabile
nell’educazione dei giovani. Coerenza! Non si può far crescere, non si può
educare senza coerenza: coerenza, testimonianza.
Per
questo l’educatore ha bisogno egli stesso di una formazione permanente.
Occorre dunque investire affinché docenti e dirigenti possano mantenere alta
la loro professionalità e anche la loro fede e la forza delle loro motivazioni
spirituali. E anche in questa formazione permanente mi permetto di suggerire
la necessità dei ritiri e degli esercizi spirituali per gli educatori.
E’ bello fare corsi su questo e quell’argomento, ma anche è necessario fare
corsi di esercizi spirituali, ritiri, per pregare! Perché la coerenza è uno
sforzo, ma soprattutto è un dono e una grazia. E dobbiamo chiederla!
AI PARTECIPANTI
ALL'ASSEMBLEA
DELLA FEDERAZIONE ITALIANA ESERCIZI SPIRITUALI (FIES)
3 marzo 2014
Eccellenza,
cari fratelli e sorelle,
vi incontro molto volentieri in occasione di questo
anniversario. Saluto il Presidente, lo saluto e anche lo ringrazio per le sue
parole. Saluto i Consiglieri, i Delegati, e tutti i presenti.
Questo
importante anniversario vi offre l’occasione propizia per un bilancio, per
ripensare alla vostra storia facendo memoria delle origini e leggendo i nuovi
segni dei tempi. Perciò è bene ricordare la finalità della Federazione, che è
quella di «far conoscere gli esercizi spirituali, intesi come
un’esperienza forte di Dio in un clima di ascolto della Parola in ordine a
una conversione e donazione sempre più totale a Cristo e alla Chiesa» (art.
2).
Il
tema che avete scelto per la vostra Assemblea: «Innamorati della bellezza
spirituale per diffondere il buon profumo di Cristo» (cfr
2 Cor 2,14), esprime il convincimento che proporre
gli Esercizi Spirituali significa invitare ad un’esperienza di Dio,
del suo amore, della sua bellezza. Chi vive gli Esercizi in modo autentico sperimenta
l’attrazione, il fascino di Dio, e ritorna rinnovato, trasfigurato alla vita
ordinaria, al ministero, alle relazioni quotidiane, portando con sé il
profumo di Cristo.
Gli
uomini e le donne di oggi hanno bisogno di incontrare Dio, di conoscerlo “non
per sentito dire” (cfr Gb
42,5). Il vostro servizio è tutto orientato a questo, e lo fate offrendo
spazi e tempi di ascolto intenso della sua Parola nel silenzio e nella
preghiera. Luoghi privilegiati per tale esperienza spirituale sono le Case di
Spiritualità, che vanno, a questo scopo, sostenute e fornite di personale
adeguato. Incoraggio i Pastori delle varie comunità a preoccuparsi perché non
manchino Case di Esercizi, dove operatori ben formati e predicatori
preparati, dotati di qualità dottrinali e spirituali, siano veri maestri di
spirito. Tuttavia, non dimentichiamo mai che il protagonista della vita
spirituale è lo Spirito Santo. Egli sostiene ogni nostra iniziativa di bene e
di preghiera.
Cari
amici, un buon corso di Esercizi Spirituali contribuisce a rinnovare
in chi vi partecipa l’adesione incondizionata a Cristo, e aiuta a capire che
la preghiera è il mezzo insostituibile di unione a Lui crocifisso: pone me
iuxta te! Vi ringrazio per il servizio prezioso
che rendete alla Chiesa, affinché la pratica degli Esercizi Spirituali
sia diffusa, sostenuta e valorizzata. La Madonna vi assista sempre in questo
lavoro. Da parte mia, vi chiedo di pregare per me, e su tutti voi invoco
l’abbondanza delle benedizioni celesti.
AI RETTORI E AGLI ALUNNI DEI PONTIFICI
COLLEGI E CONVITTI DI ROMA
12 maggio 2014
D.
– […] la Chiesa ha bisogno di pastori capaci di guidare, governare,
comunicare come ci richiede il mondo di oggi. Come si impara e si esercita la
leadership nella vita sacerdotale, assumendo il modello di Cristo che si è
abbassato assumendo la croce, la morte in croce?,
assumendo la condizione di servo fino alla morte in croce? Grazie […]
R.
– La leadership… questo è il centro della domanda… C’è una sola strada – poi
parlerò dei pastori – ma per la leadership c’è una sola strada: il servizio.
Non ce n’è un’altra. Se tu hai tante qualità – comunicare, ecc. - ma non sei
un servitore, la tua leadership cadrà, non serve, non è capace di convocare.
Soltanto il servizio: essere al servizio… Ricordo un padre spirituale molto
buono, la gente andava da lui, tanto che alcune volte non poteva pregare
tutto il breviario. E alla notte, andava dal Signore e diceva: “Signore,
guarda, non ho fatto la tua volontà, ma neppure la mia! Ho fatto la volontà
degli altri!”. Così, tutti e due – il Signore e lui – si consolavano. Il
servizio è fare, tante volte, la volontà degli altri. […]
Il
servizio del pastore. Il pastore deve essere sempre a disposizione del suo
popolo. Il pastore deve aiutare il popolo a crescere, a camminare. Ieri,
nella Lettura mi sono incuriosito perché nel Vangelo si diceva il verbo
“spingere”: il pastore spinge le pecorelle perché escano a cercare l’erba. Mi
sono incuriosito: le fa uscire, le fa uscire con forza! L’originale ha un
certo tono di questo: fa uscire, ma con forza. E’ come caccia via: “vai,
vai!”. Il pastore che fa crescere il suo popolo e che va sempre con il suo
popolo. Alcune volte, il pastore deve andare avanti, per indicare la strada;
altre volte, in mezzo, per conoscere cosa succede; tante volte, dietro, per
aiutare a quegli ultimi e anche per seguire il fiuto delle pecore che sanno
dove c’è l’erba buona.
Il
pastore… Sant’Agostino, riprendendo Ezechiele, dice che dev’essere al servizio
delle pecore e sottolinea due pericoli: il pastore che sfrutta le pecore per
mangiare, per fare soldi, per interesse economico, materiale, e il pastore
che sfrutta le pecore per vestirsi bene. La carne e la lana. Dice
sant’Agostino. Leggete quel bel sermone De pastoribus.
Bisogna leggerlo e rileggerlo. Sì, sono i due peccati dei pastori: i soldi,
che diventano ricchi e fanno le cose per soldi – pastori affaristi –; e la
vanità, sono i pastori che si credono in uno stato superiore al loro popolo,
distaccati… pensiamo, i pastori-principi. Il pastore-affarista e il
pastore-principe. Queste sono le due tentazioni che sant’Agostino,
riprendendo quel brano di Ezechiele, dice nel suo sermone. E’ vero, un
pastore che cerca se stesso, sia per la strada dei soldi sia per la strada
della vanità, non è un servitore, non ha una vera leadership.
L’umiltà
dev’essere l’arma del pastore: umile, sempre al servizio. Deve cercare il
servizio. E non è facile essere umile, no, non è facile! Dicono i monaci del
deserto che la vanità è come la cipolla: tu, quando prendi una cipolla,
cominci a sfogliarla, e tu ti senti vanitoso e incominci a sfogliare la
vanità. E vai, e vai, e un’altra foglia, e un’altra, e un’altra, e un’altra…
alla fine, tu arrivi a… niente. “Ah, grazie a Dio, ho sfogliato la cipolla,
ho sfogliato la vanità”. Fai così, e hai l’odore della cipolla! Così dicono i
padri del deserto. La vanità è così. Una volta ho sentito un gesuita – buono,
un buon uomo –, ma era tanto vanitoso, tanto vanitoso… E tutti noi gli
dicevamo: “Tu sei vanitoso!”, ma lui era tanto buono che lo perdonavamo
tutti. E se n’è andato a fare gli esercizi spirituali, e quando è
tornato ci ha detto, a noi, nella comunità: “Che begli esercizi! Ho fatto
otto giorni di Cielo, e ho trovato che io ero tanto vanitoso! Ma grazie a
Dio, ho vinto tutte le passioni!”. La vanità è così! E’ tanto difficile
togliere la vanità da un prete. Ma il popolo di Dio ti perdona tante cose: ti
perdona se hai avuto una scivolata, affettiva, te lo perdona. Ti perdona se
hai avuto una scivolata con un po’ più di vino, te la perdona. Ma non ti
perdona se sei un pastore attaccato ai soldi, se sei un pastore vanitoso che
non tratta bene la gente. Perché il vanitoso non tratta bene la gente. Soldi,
vanità e orgoglio. I tre scalini che ci portano a tutti i peccati. Il popolo
di Dio capisce le nostre debolezze, e le perdona; ma queste due, non le
perdona! L’attaccamento ai soldi non lo perdona, nel pastore. E non trattare
bene loro, non lo perdona. E’ curioso, no? Questi due difetti, dobbiamo
lottare per non averli. Poi, la leadership deve andare nel servizio, ma con
un amore personale alla gente […]
CELEBRAZIONE DEI VESPRI E TE DEUM IN OCCASIONE DEL
BICENTENARIO
DELLA RICOSTITUZIONE DELLA COMPAGNIA DI GESù
27 settembre 2014
Cari
fratelli e amici nel Signore, la Compagnia insignita del nome di Gesù ha
vissuto tempi difficili, di persecuzione. Durante il generalato del p.
Lorenzo Ricci «i nemici della Chiesa giunsero ad ottenere la soppressione
della Compagnia» (Giovanni Paolo II, Messaggio a p. Kolvenbach,
31 luglio 1990) da parte del mio predecessore Clemente XIV. Oggi, ricordando
la sua ricostituzione, siamo chiamati a recuperare la nostra memoria, a fare
memoria, richiamando alla mente i benefici ricevuti e i doni particolari (cfr Esercizi Spirituali, 234). E oggi voglio farlo
qui con voi.
AGLI ADERENTI AL CAMMINO NEOCATECUMENALE
18 marzo 2016
Voi
avete ricevuto un grande carisma, per il rinnovamento battesimale della vita;
infatti si entra nella Chiesa attraverso il Battesimo. Ogni carisma è una
grazia di Dio per accrescere la comunione. Ma il carisma può deteriorarsi
quando ci si chiude o ci si vanta, quando ci si vuole distinguere dagli
altri. Perciò bisogna custodirlo. Custodite il vostro carisma! Come? Seguendo
la via maestra: l’unità umile e obbediente. Se c’è questa, lo Spirito Santo
continua a operare, come ha fatto in Maria, aperta, umile e obbediente. È
sempre necessario vigilare sul carisma, purificando gli eventuali eccessi
umani mediante la ricerca dell’unità con tutti e l’obbedienza alla Chiesa.
Così si respira nella Chiesa e con la Chiesa; così si rimane figli docili
della «Santa Madre Chiesa Gerarchica», con «l’animo apparecchiato e
pronto» per la missione (cfr S. Ignazio di
Loyola, Esercizi spirituali, 353).
Sottolineo
questo aspetto: la Chiesa è nostra Madre. Come i figli portano impressa nel
volto la somiglianza con la mamma, così tutti noi assomigliamo alla nostra
Madre, la Chiesa. Dopo il Battesimo non viviamo più come individui isolati,
ma siamo diventati uomini e donne di comunione, chiamati ad essere operatori
di comunione nel mondo. Perché Gesù non solo ha fondato la Chiesa per noi, ma
ha fondato noi come Chiesa. La Chiesa non è uno strumento per noi: noi siamo
Chiesa. Da lei siamo rinati, da lei veniamo nutriti con il Pane di vita, da
lei riceviamo parole di vita, siamo perdonati e accompagnati a casa. Questa è
la fecondità della Chiesa, che è Madre: non è una organizzazione che cerca
adepti, o un gruppo che va avanti seguendo la logica delle sue idee, ma è una
Madre che trasmette la vita ricevuta da Gesù.
GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA
MISERICORDIA - RITIRO SPIRITUALE
IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEI SACERDOTI - PRIMA MEDITAZIONE
2 giugno 2016
Quando
meditiamo sulla misericordia accade qualcosa di speciale. La dinamica degli Esercizi
Spirituali si potenzia dall’interno. La misericordia fa vedere che le vie
oggettive della mistica classica – purgativa, illuminativa e unitiva – non
sono mai fasi successive, che si possano lasciare alle spalle. Abbiamo sempre
bisogno di nuova conversione, di maggiore contemplazione e di un rinnovato
amore. Queste tre fasi si intrecciano e ritornano. Niente unisce maggiormente
con Dio che un atto di misericordia – e questa non è una esagerazione: niente
unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia – sia che si tratti
della misericordia con la quale il Signore ci perdona i nostri peccati, sia
che si tratti della grazia che ci dà per praticare le opere di misericordia
in suo nome. Niente illumina di più la fede che il purgare i nostri peccati,
e niente vi è di più chiaro che Matteo 25 e quel «Beati i misericordiosi
perché otterranno misericordia» (Mt 5,7) per comprendere qual è la volontà di
Dio, la missione alla quale ci invia. Alla misericordia si può applicare
quell’insegnamento di Gesù: «Con la misura con la quale misurate sarà
misurato a voi» (Mt 7,2). Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori
impazienti, che “bastonano” i penitenti, che li rimproverano. Ma così li
tratterà Dio! Almeno per questo, non fate queste cose. La misericordia ci
permette di passare dal sentirci oggetto di misericordia al desiderio di
offrire misericordia. Possono convivere, in una sana tensione, il sentimento
di vergogna per i propri peccati con il sentimento della dignità alla quale
il Signore ci eleva. Possiamo passare senza preamboli dalla distanza alla
festa, come nella parabola del figlio prodigo, e utilizzare come ricettacolo
della misericordia il nostro stesso peccato. Ripeto questo, che è la chiave
della prima mediazione: utilizzare come ricettacolo della misericordia il
nostro stesso peccato. La misericordia ci spinge a passare dal personale al
comunitario. Quando agiamo con misericordia, come nei miracoli della
moltiplicazione dei pani, che nascono dalla compassione di Gesù per il suo
popolo e per gli stranieri, i pani si moltiplicano nella misura in cui
vengono condivisi. […]
[…]
due consigli pratici che dà sant’Ignazio - mi scuso per la pubblicità “di
famiglia” - il quale dice: «Non è il molto sapere che riempie e soddisfa
l’anima, ma il sentire e gustare le cose di Dio interiormente» (Esercizi
Spirituali, 2). Sant’Ignazio aggiunge che lì dove uno trova quello che
desidera e prova gusto, lì si fermi in preghiera «senza avere l’ansia di
passare ad altro, finché mi soddisfi» (ibid., 76). Così che, in queste
meditazioni sulla misericordia, uno può iniziare da dove più gli piace e lì
soffermarsi, dal momento che sicuramente un’opera di misericordia vi condurrà
alle altre. Se iniziamo ringraziando il Signore, che in modo stupendo ci ha
creati e in modo ancor più stupendo ci ha redenti, sicuramente questo ci
condurrà a provare pena per i nostri peccati. Se cominciamo col provare
compassione per i più poveri e lontani, sicuramente sentiremo anche noi la
necessità di ricevere misericordia. […]
Nella
nostra preghiera, serena, che va dalla vergogna alla dignità e dalla dignità
alla vergogna – tutte e due insieme – chiediamo la grazia di sentire tale
misericordia come costitutiva di tutta la nostra vita; la grazia di sentire
come quel battito del cuore del Padre si unisca con il battito del nostro.
Non basta sentire la misericordia di Dio come un gesto che, occasionalmente,
Egli fa perdonandoci qualche grosso peccato, e per il resto ci aggiustiamo da
soli, autonomamente. Non basta.
Sant’Ignazio
propone un’immagine cavalleresca propria della sua epoca, ma poiché la lealtà
tra amici è un valore perenne, può aiutarci. Egli afferma che, per sentire «confusione
e vergogna» per i nostri peccati (e non smettere di sentire la misericordia)
possiamo far uso di un esempio: immaginiamo «un cavaliere che vada davanti
al suo re e a tutta la sua corte, pieno di vergogna e confuso per averlo
molto offeso, dal momento che da parte del re aveva in precedenza ricevuto
molti doni e molte grazie» (Esercizi Spirituali, 74). Immaginiamo quella
scena. Tuttavia, seguendo la dinamica del figlio prodigo nella festa,
immaginiamo questo cavaliere come uno che, invece di essere svergognato
davanti a tutti, il re, al contrario, lo prenda inaspettatamente per la mano
e gli restituisca la sua dignità. E vediamo che non solo lo invita a seguirlo
nella sua battaglia, ma che lo pone alla testa dei suoi compagni. Con quale
umiltà e lealtà lo servirà questo cavaliere d’ora in avanti! Questo mi fa
pensare all’ultima parte del capitolo 16 di Ezechiele, l’ultima parte.
Sia
che si senta come il figlio prodigo festeggiato, sia come il cavaliere sleale
trasformato in superiore, l’importante è che ciascuno si ponga nella tensione
feconda in cui la misericordia del Signore ci colloca: non solamente di
peccatori perdonati, ma di peccatori a cui è conferita dignità. Il Signore
non solamente ci pulisce, ma ci incorona, ci dà dignità.
INCONTRO PRIVATO CON ALCUNI GESUITI
POLACCHI
30 luglio 2016
Qual
è il ruolo dell’Università dei gesuiti?
Una
Università retta dai gesuiti deve puntare a una formazione globale e non
solamente intellettuale, una formazione di tutto l’uomo. Infatti se
l’Università diviene semplicemente una accademia di nozioni o una «fabbrica»
di professionisti, o nella sua struttura prevale una mentalità centrata sugli
affari, allora è davvero fuori strada. Noi abbiamo in mano gli Esercizi.
Ecco la sfida: portare l’Università sulla strada degli Esercizi.
Questo significa rischiare sulla verità e non sulle «verità chiuse» che
nessuno discute. La verità dell’incontro con le persone è aperta e richiede
di lasciarsi interpellare davvero dalla realtà. E l’Università dei gesuiti
deve essere coinvolta anche nella vita reale della Chiesa e della Nazione:
anche questa è realtà, infatti. Una particolare attenzione deve essere sempre
data agli emarginati, alla difesa di coloro che hanno più bisogno di essere
protetti. E questo — sia chiaro — non è essere comunisti: è semplicemente
essere davvero coinvolti con la realtà. In questo caso, in particolare una
Università dei gesuiti deve essere pienamente coinvolta con la realtà
esprimendo il pensiero sociale della Chiesa. Il pensiero liberista, che
sposta l’uomo dal centro e ha messo al centro il denaro, non è il nostro. La
dottrina della Chiesa è chiara e bisogna andare avanti in questo senso.
In
questo gruppo ci sono alcuni preti appena ordinati. Ha consigli per il loro
futuro?
Tu
sai: il futuro è di Dio. Il massimo che noi possiamo fare sono i futuribili.
E i futuribili sono tutti del cattivo spirito! Un consiglio: il sacerdozio è
una grazia davvero grande; il tuo sacerdozio come gesuita sia bagnato
della spiritualità che tu hai vissuto fino ad ora: la spiritualità del Suscipe
di sant’Ignazio
(1).
(1) Il Suscipe è una preghiera che sant’Ignazio inserisce nei
suoi Esercizi Spirituali all’interno della cosiddetta Contemplatio
ad amorem (n. 234): «Prendi, o Signore, e accetta
tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà,
tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo
ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo
amore e la tua grazia, e questo solo mi basta». Ricordiamo che anche
Benedetto XVI aveva raccomandato il Suscipe
ignaziano, rispondendo ai seminaristi durante una visita al Seminario Romano
Maggiore, il 17 febbraio 2007.
Voglio
aggiungere adesso una cosa. Vi chiedo di lavorare con i seminaristi.
Soprattutto date loro quello che noi abbiamo ricevuto dagli Esercizi:
la saggezza del discernimento. La Chiesa oggi ha bisogno di crescere nella
capacità di discernimento spirituale.
Alcuni
piani di formazione sacerdotale corrono il pericolo di educare alla luce di
idee troppo chiare e distinte, e quindi di agire con limiti e criteri
definiti rigidamente a priori, e che prescindono dalle situazioni concrete:
«Si deve fare questo, non si deve fare questo…». E quindi i seminaristi,
diventati sacerdoti, si trovano in difficoltà nell’accompagnare la vita di
tanti giovani e adulti. Perché molti chiedono: «Questo si può o non si può?».
Tutto qui. E molta gente esce dal confessionale delusa. Non perché il
sacerdote sia cattivo, ma perché il sacerdote non ha la capacità di
discernere le situazioni, di accompagnare nel discernimento autentico. Non ha
avuto la formazione necessaria.
Oggi
la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di
discernere. E soprattutto i sacerdoti ne hanno davvero bisogno per il loro
ministero. Per questo occorre insegnare ai seminaristi e ai sacerdoti in
formazione: loro abitualmente riceveranno le confidenze della coscienza dei
fedeli. La direzione spirituale non è un carisma solamente sacerdotale, ma
anche laicale, è vero. Ma, ripeto, bisogna insegnare questo soprattutto ai
sacerdoti, aiutarli alla luce degli Esercizi nella dinamica del
discernimento pastorale, che rispetta il diritto, ma sa andare oltre. Questo
è un compito importante per la Compagnia.
Mi
ha colpito tanto un pensiero del padre Hugo Rahner (2). Lui pensava chiaro e
scriveva chiaro! Hugo diceva che il gesuita dovrebbe essere un uomo dal fiuto
del soprannaturale, cioè dovrebbe essere dotato di un senso del divino e del
diabolico relativo agli avvenimenti della vita umana e della storia. Il
gesuita deve essere dunque capace di discernere sia nel campo di Dio sia nel
campo del diavolo. Per questo negli Esercizi sant’Ignazio chiede di
essere introdotto sia alle intenzioni del Signore della vita sia a quelle del
nemico della natura umana e ai suoi inganni. È audace, è audace veramente
quello che ha scritto, ma è proprio questo il discernimento! Bisogna formare
i futuri sacerdoti non a idee generali e astratte, che sono chiare e
distinte, ma a questo fine discernimento degli spiriti, perché possano
davvero aiutare le persone nella loro vita concreta. Bisogna davvero capire
questo: nella vita non è tutto nero su bianco o bianco su nero. No! Nella
vita prevalgono le sfumature di grigio. Occorre allora insegnare a discernere
in questo grigio.
(2) Qui
il Pontefice si riferisce a un testo di Hugo Rahner nato in seguito a una
sessione di studi sulla spiritualità ignaziana. L’edizione italiana più
recente è la seguente: Come sono nati gli Esercizi. Il
cammino spirituale di sant’Ignazio di Loyola, Roma,
AdP, 2004. Francesco qui si sta riferendo alle riflessioni
che Hugo Rahner scrive nel capitolo ottavo del volume. Notiamo che il
capitolo terzo dello stesso studio fu citato dal beato Paolo VI il 3 dicembre
1974, parlando alla XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù.
ALLA 36a CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
24 ottobre
2016
Si può sempre fare un passo avanti nel chiedere
insistentemente la consolazione. Nelle due Esortazioni Apostoliche [Evangelii
gaudium e Amoris laetitia]
e nell’Enciclica Laudato si’ ho voluto insistere sulla gioia. Ignazio, negli Esercizi
fa contemplare ai suoi amici «il compito di consolare», come specifico di
Cristo Risorto (ES 224). E’ compito proprio della Compagnia consolare il
popolo fedele e aiutare con il discernimento affinché il nemico della natura
umana non ci sottragga la gioia: la gioia di evangelizzare, la gioia della
famiglia, la gioia della Chiesa, la gioia del creato… Che non ce la rubi né
per scoraggiamento di fronte alla grandezza dei mali del mondo e ai malintesi
tra coloro che si propongono di fare il bene, né che ce la rimpiazzi con le
gioie fatue che sono sempre a portata di mano in qualsiasi negozio.
Questo “servizio della gioia e della consolazione
spirituale” è radicato nella preghiera. Consiste nell’incoraggiarci e
incoraggiare tutti a «chiedere insistentemente la consolazione a Dio».
Ignazio lo formula in modo negativo nella 6ª regola della prima settimana,
quando afferma che «giova molto cambiare intensamente sé stessi contro la
stessa desolazione» insistendo nella preghiera (ES 319). Giova perché nella
desolazione ci accorgiamo di quanto poco valiamo senza quella grazia e
consolazione (cfr ES 324). Praticare e
insegnare questa preghiera di chiedere e supplicare la consolazione è il
principale servizio alla gioia. Se qualcuno non si ritiene degno (cosa molto
comune nella pratica), almeno insista nel chiedere questa consolazione per
amore al messaggio, dal momento che la gioia è costitutiva del messaggio
evangelico, e la chieda anche per amore agli altri, alla sua famiglia e al
mondo. Una buona notizia non si può dare con il volto triste. La gioia non è
un “di più” decorativo, è chiaro indice della grazia: indica che l’amore è
attivo, operante, presente. Perciò il cercarla non va confuso con il cercare
“un effetto speciale”, che la nostra epoca sa produrre per esigenze di
consumo, bensì la si cerca nel suo indice esistenziale che è la “permanenza”:
Ignazio apre gli occhi e si sveglia al discernimento degli spiriti scoprendo
questo diverso valore tra gioie durature e gioie passeggere (Autobiog 8). Il tempo sarà l’elemento che gli offre la
chiave per riconoscere l’azione dello Spirito.
Negli
Esercizi, il “progresso” nella vita spirituale si dà nella
consolazione: è l’andare procedendo di bene in meglio (cfr ES 315) e anche «ogni aumento di speranza,
fede, e carità, e ogni gioia interiore» (ES 316). Questo servizio della
gioia fu quello che condusse i primi compagni a decidere di non sciogliere ma
costituire la compagnia che si offrivano e condividevano spontaneamente e la
cui caratteristica era la gioia che dava loro il pregare insieme, l’uscire in
missione insieme e il tornare a riunirsi, ad imitazione della vita che
conducevano il Signore e i suoi Apostoli. Questa gioia dell’annuncio
esplicito del Vangelo – mediante la predicazione della fede e la pratica
della giustizia e della misericordia – è ciò che porta la Compagnia ad uscire
verso tutte le periferie.
Il
gesuita è un servitore della gioia del Vangelo, sia quando lavora “artigianalmente”
conversando e dando gli esercizi spirituali a una sola persona,
aiutandola a incontrare quel «luogo interiore da dove gli viene la forza
dello Spirito che lo guida, lo libera e lo rinnova» [10], sia quando lavora
in maniera strutturata organizzando opere di formazione, di misericordia, di
riflessione, che sono prolungamento istituzionale di quel punto di
inflessione in cui si dà il superamento della propria volontà ed entra in
azione lo Spirito. Bene affermava M. De Certeau:
gli Esercizi sono «il metodo apostolico per eccellenza», poiché
rendono possibile «il ritorno al cuore, al principio di una docilità allo
Spirito, che risveglia e spinge chi compie gli esercizi a una fedeltà
personale a Dio» [11].
[10] Pierre Favre, Memorial,
Paris, Desclée, 1959; cfr Introduction de M. De CERTAU, pag. 74.
[11] Ibid. 76.
Il Giubileo della Misericordia è un tempo propizio
per riflettere sui servizi della misericordia. Lo dico al plurale perché la
misericordia non è una parola astratta ma uno stile di vita, che antepone
alla parola i gesti concreti che toccano la carne del prossimo e si
istituzionalizzano in opere di misericordia. Per noi che facciamo gli Esercizi,
questa grazia mediante la quale Gesù ci comanda di assomigliare al Padre (cfr Lc 6,36) inizia con quel colloquio di misericordia
che è il prolungamento del colloquio con il Signore crocifisso a causa dei
miei peccati. Tutto il secondo esercizio è un colloquio pieno di
sentimenti di vergogna, confusione, dolore e lacrime di gratitudine vedendo
chi sono io – facendomi piccolo – e chi è Dio – magnificandolo – lui «che mi
ha conservato in vita fino ad ora» (ES 61), chi è Gesù, appeso alla croce
per me. Il modo in cui Ignazio vive e formula la sua esperienza della
misericordia è di grande giovamento personale e apostolico e richiede
un’acuta ed elevata esperienza di discernimento. Diceva il nostro padre a
[san Francesco] Borgia: «Quanto a me, mi persuado che prima e dopo sono tutto
un impedimento; e di ciò sento una più grande contentezza e gioia spirituale
nel Signore nostro, per il fatto di non potere attribuire a me cosa alcuna
che appaia buona» [12]. Ignazio vive dunque della pura misericordia di Dio
fin nelle cose più piccole della sua vita e della sua persona. E sentiva che
quanto più impedimento egli poneva, con tanta maggior bontà lo trattava il
Signore: «Tanta era la misericordia del Signore, e tanta la copia della
soavità e dolcezza della grazia sua con esso lui, che quanto egli più
desiderava d’essere in questo modo gastigato, tanto
più benigno era Iddio e con abbondanza maggiore spargeva sopra di lui i
tesori della sua infinita liberalità. Laonde
diceva, che egli credeva no vi essere nel mondo uomo, in cui queste due cose
insieme, tanto come in lui, concorressero; la prima mancare tanto a Dio e l’altra
il ricevere tante e così continue grazie dalla sua mano» [13].
Ignazio, nel formulare la sua esperienza della
misericordia in questi termini comparativi – quanto più sentiva di far torto
al Signore, tanto più il Signore abbondava nel dargli la sua grazia – libera
la forza vivificante della misericordia che noi molte volte diluiamo con
formulazioni astratte e condizioni legalistiche. Il Signore, che ci guarda
con misericordia e ci sceglie, ci invia per far giungere con tutta la sua
efficacia la stessa misericordia ai più poveri, ai peccatori, agli scartati e
ai crocifissi del mondo attuale che soffrono l’ingiustizia e la violenza.
Solo se sperimentiamo questa forza risanatrice nel vivo delle nostre stesse
piaghe, come persone e come corpo [comunità], perderemo la paura di lasciarci
commuovere dall’immensità della sofferenza dei nostri fratelli e ci lanceremo
a camminare pazientemente con la nostra gente, imparando da essa il modo
migliore di aiutarla e servirla (cfr CG 32 d 4 n
50).
[12] Ignazio di Loyola, Lettera 26 a Francisco de Borja, fine del 1545.
[13] P. Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loiola,
Roma, La Civiltà Cattolica, 1863, 336.
PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI DELLA CURIA ROMANA
22 dicembre 2016
Proprio
sotto questa luce soave e imponente del volto divino di Cristo bambino, ho
scelto come argomento di questo nostro incontro annuale la riforma della
Curia Romana. Mi è sembrato giusto e opportuno condividere con voi il quadro
della riforma, evidenziando i criteri-guida, i passi compiuti, ma soprattutto
la logica del perché di ogni passo realizzato e di ciò che verrà compiuto.
In
verità, qui mi torna spontaneo alla memoria l’antico adagio che illustra la
dinamica degli Esercizi Spirituali nel metodo ignaziano, ossia: deformata
reformare, reformata
conformare, conformata confirmare e confirmata transformare.
Non
v’è dubbio che nella Curia il significato della ri-forma
può essere duplice: anzitutto renderla con-forme alla Buona Novella che deve
essere proclamata gioiosamente e coraggiosamente a tutti, specialmente ai
poveri, agli ultimi e agli scartati; con-forme ai segni del nostro tempo e a
tutto ciò che di buono l’uomo ha raggiunto, per meglio andare incontro alle
esigenze degli uomini e delle donne che siamo chiamati a servire[7]; al tempo
stesso si tratta di rendere la Curia più conforme al suo fine, che è quello
di collaborare al ministero proprio del Successore di Pietro[8] («cum Ipso consociatam operam prosequuntur», dice il
Motu proprio Humanam progressionem),
quindi di sostenere il Romano Pontefice nell’esercizio della sua potestà
singolare, ordinaria, piena, suprema, immediata e universale.
MEDITAZIONE MATTUTINA
6 febbraio 2017
Per la sua
meditazione, Francesco ha preso le mosse dal salmo 103, nel quale, ha fatto
notare, «abbiamo lodato il Signore» dicendo: «Sei tanto grande, Signore, mio
Dio! Sei tanto grande!». Un salmo che, ha affermato, «è stato un canto di
lode: lodiamo il Signore per le cose che abbiamo sentito in ambedue le
letture, per la creazione, tanto grande; e, nella seconda lettura, per la ri-creazione, ancora più meravigliosa della creazione,
che fa Gesù». Il riferimento è appunto ai testi proposti dalla liturgia della
parola, tratti dal libro della Genesi (1, 1-19) e dal vangelo di Marco (6,
53-56). Il Papa ha spiegato che «il Padre lavora» e lo stesso «Gesù dice:
“Mio Padre opera e anch’io opero”. È un modo di dire “lavoro”, ad
instar laborantis, come uno che lavora, come
precisa sant’Ignazio negli esercizi» (cfr. Esercizi spirituali 236).
E così «il Padre
lavora per fare questa meraviglia della creazione — ha proseguito Francesco —
e per fare col Figlio questa meraviglia della ri-creazione;
per fare quel passaggio dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dal peccato
alla grazia». E «questo è il lavoro del Padre e per questo noi abbiamo lodato
il Padre, il Padre che lavora».
ALLA COMUNITÀ DEL PONTIFICIO SEMINARIO
CAMPANO DI POSILLIPO
6 maggio 2017
Il
vostro Seminario rappresenta un caso singolare nell’attuale panorama
ecclesiale italiano. Fondato nel 1912 per volontà di San Pio X, come avveniva per diverse istituzioni formative a quel
tempo, fu affidato da subito alla direzione dei Padri Gesuiti, che lo hanno
guidato attraverso le notevoli trasformazioni avvenute in più di cento anni,
rimanendo attualmente l’unico seminario in Italia diretto dalla Compagnia di
Gesù.
Negli
ultimi decenni è andata sempre più crescendo la collaborazione e
l’interazione con le Chiese diocesane che, oltre ad inviare i giovani candidati
al sacerdozio, si preoccupano di individuare tra i loro presbiteri figure
idonee per la formazione. Incoraggio questo cammino significativo e fecondo
di comunione ecclesiale, su cui le singole diocesi, con i loro Pastori,
stanno investendo notevoli risorse.
Una
comunità formativa interdiocesana rappresenta
un’indubbia opportunità di arricchimento, in virtù delle diverse sensibilità
ed esperienze di cui ciascuno è portatore ed è in grado di educare i futuri
presbiteri a sentirsi parte dell’unica Chiesa di Cristo, allargando sempre il
respiro del proprio sogno vocazionale, con autentico spirito missionario (cfr Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 91), che non indebolisce, anzi consolida e motiva
il senso di appartenenza alla Chiesa particolare.
In
questo tempo, in cui tutti ci sentiamo piccoli, forse impotenti di fronte
alla sfida educativa, camminare insieme, in autentico spirito “sinodale”,
risulta una scelta vincente, che ci aiuta a sentirci sostenuti, incoraggiati
e arricchiti gli uni dagli altri. Questo esercizio di comunione è poi
ulteriormente arricchito dall’incontro con la ricca tradizione spirituale e
pedagogica ignaziana, che ha negli Esercizi Spirituali un sicuro punto
di riferimento, a cui vi siete ispirati per il vostro progetto formativo,
mediando così con “fedeltà creativa” le indicazioni che provengono dal
magistero della Chiesa. Cari educatori, formare alla spiritualità propria del
presbitero diocesano secondo la pedagogia degli Esercizi di Sant’Ignazio
è la vostra missione: una sfida ardua, ma al tempo stesso esaltante, che ha
la responsabilità di indicare la direzione per il futuro ministero
sacerdotale.
INCONTRO PRIVATO CON ALCUNI GESUITI COLOMBIANI
10 settembre 2017
«Buonasera, Santità […] vorrei porre una
domanda di questo tenore: verso quale orizzonte vuole che motiviamo i nostri giovani di spiritualità ignaziana?».
Mi viene da rispondere, per dirla in maniera un po’
intellettuale: metterli in spiritualità di Esercizi. Che cosa voglio
dire? Di metterli in movimento, in azione. Oggi la
pastorale giovanile dei gruppetti e della pura riflessione non funziona più.
La pastorale di giovani quieti non ingrana. Devi mettere il giovane in
movimento: sia o non sia praticante, va messo in movimento.
Se è credente, guidarlo ti riuscirà più facile. Se
non è credente, bisogna lasciare che sia la vita stessa a interpellarlo, ma
stando in movimento e accompagnandolo; senza imporgli niente, ma
accompagnandolo… in attività di volontariato, in lavori con anziani, in lavori
di alfabetizzazione… tutti i modi adatti a un giovane. Se mettiamo il giovane
in movimento, lo poniamo in una dinamica in cui il Signore comincia a
parlargli e comincia a smuovergli il cuore. Non saremo noi a smuovergli il
cuore con le nostre argomentazioni; tutt’al più lo aiuteremo, con la
mente, quando il cuore si muove.
Ieri, a Medellín, ho raccontato un episodio che per
me ha significato molto, perché mi è venuto
dal cuore. A Cracovia, durante il pranzo con quindici ragazzi di diverse parti
del mondo, insieme all’arcivescovo – in ogni Giornata della gioventù c’è un
pranzo del genere –, hanno cominciato a fare domande e si è aperto un
dialogo. Un giovane universitario mi ha chiesto: «Alcuni miei compagni sono
atei, che cosa devo dire per convincerli?». Questo mi ha fatto notare il
senso di militanza ecclesiale che aveva quel ragazzo. La risposta che mi è
venuta è stata chiara: «L’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa, davvero
l’ultima. Comincia ad agire, invitalo ad accompagnarti e, quando vedrà quello
che fai e il modo in cui lo fai, ti domanderà, e a quel punto puoi cominciare
a dire qualcosa».
Quel che vi dico è di mettere i giovani in movimento,
inventare cose che li facciano sentire protagonisti e, poi, li inducano a
chiedersi: «Che succede, che cos’è che mi ha cambiato il cuore, perché ne
sono uscito contento?». Come negli Esercizi, insomma, quando ci si
interroga sulle mozioni interiori. Ovviamente, però, non domandate ai ragazzi
quali mozioni hanno avuto, perché non capirebbero niente del vostro
linguaggio. Ma lasciate che vi raccontino loro che cosa hanno sentito, e a
partire da là coinvolgeteli a poco a poco. Ma per riuscirci – come mi diceva
il benemerito padre Furlong, quando mi hanno fatto
provinciale – bisogna avere la pazienza di star seduti ad ascoltare chi viene
quando pone questioni, e bisogna sapersi però destreggiare quando chi viene
ti vuole infilare in discussioni infinite. I giovani stancano, i giovani
discutono; allora bisogna avere questa mortificazione continua di starli
ad ascoltare sempre e comunque. Ma per me il punto chiave è il movimento.
MEDITAZIONE MATTUTINA
26 ottobre
2017
C’è
chi pensa che l’abitudine di «fare un esame di coscienza» ogni giorno
sia una pratica superata, non per «cristiani aggiornati». Ma «la lotta che ha
portato Gesù contro il male non è cosa antica, è cosa molto moderna» perché
si trova ogni giorno nel «nostro cuore». E l’esame di coscienza
accompagna il cristiano in questa lotta aiutandolo «a fare spazio allo
Spirito Santo». È questo il consiglio dato dal Papa nell’omelia della messa
celebrata a Santa Marta giovedì 26 ottobre. Commentando le letture del
giorno, il Pontefice ha affrontato il tema della conversione: un «cammino»
che richiede lotta e impegno continui.
Francesco
ha preso anzitutto in esame il Vangelo di Luca (12, 49-53), nel quale «Gesù
ci dice che lui è venuto a gettare fuoco sulla terra». Ma, ha precisato, si
tratta di un fuoco — quello che lui «getta con la sua parola, con la sua
morte e risurrezione, con lo Spirito Santo che ci ha inviato» — che provoca
«non le guerre che noi vediamo nei campi di lotta, di battaglia, ma le guerre
culturali, le guerre familiari, le guerre sociali, anche la guerra nel cuore,
la lotta interiore». Gesù, infatti, «ci chiama a cambiare vita, a cambiare
strada, ci chiama alla conversione». È questo il fuoco di cui parla: «un
fuoco che non ti lascia tranquillo, non può, ti spinge a cambiare».
Anche
Paolo, scrivendo ai Romani (6, 19-23) e scusandosi «perché usa un linguaggio
umano», spiega «che devono cambiare in tutto, cambiare il modo di pensare:
“Tu prima pensavi come un pagano, come un mondano, adesso devi pensare come
un cristiano”». Il cuore, «che era mondano,
pagano — ha detto il Pontefice — diventa adesso cristiano con la forza di
Cristo: cambiare, questa è la conversione». Un cambiamento che coinvolge «il
modo di agire: le tue opere devono cambiare». Per spiegarsi meglio,
l’apostolo scrive: «Come avete messo le vostre membra al servizio del
peccato, adesso mettete le vostre membra al servizio del Signore».
Quindi
«la conversione coinvolge tutto, corpo e anima». Ed è un cambiamento che non
si fa «col trucco»: lo fa «lo Spirito Santo». Certo, «io devo fare del mio
perché lo Spirito Santo possa agire», ed è proprio questa la lotta di cui parla
Gesù. Perciò il Papa ha sottolineato che «non esistono cristiani tranquilli,
che non lottano: quelli non sono cristiani sono dei “tiepidi”, e Gesù ha
detto cosa farà con i tiepidi, nel libro dell’Apocalisse. La vita cristiana è
una lotta». È un concetto che si ritrova anche nell’Antico testamento, dove
«i sapienziali dicevano: “la vita è una milizia sulla terra”, la vita
cristiana è una lotta, una lotta che non ti dà tranquillità ma ti dà pace». A
tale riguardo Francesco ha spiegato che «dobbiamo imparare a distinguere»: la
tranquillità, infatti, «tu puoi trovarla anche con una pastiglia», come
quella che si prende per vincere l’insonnia. Invece «non ci sono pastiglie
per la pace. Soltanto lo Spirito Santo può darla e questa lotta, questo fuoco
ti porta quella pace interiore, quella pace dell’anima che dà la fortezza ai
cristiani».
Di
questa lotta interiore hanno dato testimonianza «tanti martiri nella storia
della Chiesa», tanti uomini e donne arrivati perfino «a dare la vita», tanti
«cristiani silenziosi, tanti uomini, padri di famiglia, tante donne, madri di
famiglia, che portano avanti la loro vita con silenzio, educando i figli, e
vanno avanti col lavoro, e cercano di fare la volontà di Dio»
Ma,
si è chiesto il Pontefice, «come aiutiamo lo Spirito Santo»? Facendo «spazio
nel nostro cuore». Ecco allora il consiglio pratico suggerito da Francesco:
l’utilità dell’«esame di coscienza».
Alla fine di ogni giorno bisogna chiedersi: «Cosa è successo nel mio cuore
oggi? Cosa ho sentito? Cosa ho fatto? Cosa ho pensato? I miei sentimenti
riguardo ai prossimi, alla famiglia, agli amici, ai nemici: cosa ho sentito,
questo sentimento è cristiano o non è cristiano? E così andare avanti». E
ancora: «Di quale cosa ho parlato, come è andata la mia lingua oggi? Ha
parlato bene o ha sparlato degli altri?». Si tratta di una pratica che
«ci aiuta a fare spazio, ci aiuta a lottare contro le malattie dello Spirito,
quelle che semina il nemico e che sono malattie di mondanità».
Qualcuno,
però, potrebbe obiettare: «Ma, padre, queste cose sono vecchie, noi adesso
siamo moderni, siamo cristiani aggiornati». La risposta è immediata: «Ma,
pensa: la lotta che ha portato Gesù contro il diavolo, contro il male non è
cosa antica, è cosa molto moderna, è cosa di oggi, di tutti i giorni». Ed è
una guerra che si trova «nel cuore nostro, quel fuoco che Gesù è venuto a
portarci è nel cuore nostro». Quindi «lascio entrare, lascio che lui mi
tocchi e mi cambi».
Da
ciò si capisce, ha spiegato il Papa, che la conversione non è una decisione
presa una tantum — «prima io ero pagano, adesso sono cristiano» — ma è
«domandarsi ogni giorno: come sono passato dalla mondanità, dal peccato alla
grazia, ho fatto spazio allo Spirito Santo perché lui potesse agire?». Consapevoli
che «le difficoltà nella nostra vita non si risolvono annacquando la verità».
Da qui la domanda: di fronte alla verità di Gesù che «ha portato fuoco e
lotta, cosa faccio io?».
A
questo punto Francesco ha dato un altro consiglio pratico attingendolo
dall’orazione colletta nella quale si chiede «la grazia di un cuore generoso
e fedele». E ha spiegato: «Per la conversione ci vogliono ambedue le cose:
generosità, che viene sempre dall’amore, e fedeltà, fedeltà alla parola di
Dio». La preghiera, poi, continua dicendo: «Così possiamo servirti con
lealtà». Bisogna, cioè, «essere leali davanti a Dio, trasparenti, dire la
verità, E il cuore del Signore — ha concluso il Pontefice — è tanto buono,
tanto grande che davanti a una persona leale, io direi si “indebolisce”, cioè
ci ama di più, si avvicina di più e fa il miracolo della conversione».
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.
CONVERSAZIONE CON I GESUITI
DEL MYANMAR
29 novembre
2017
Grazie per essere venuti. Vedo molte facce giovani, e
mi fa piacere. È una cosa buona, perché è una promessa. I giovani hanno
futuro, se hanno radici. Se non hanno radici, vanno dove tira il vento. Per
cominciare, a me piacerebbe porre una domanda. Ognuno se la rivolga nel suo
esame di coscienza: dove sono le mie radici? Ho radici? Le mie radici sono
tenaci o sono deboli? È una domanda che ci farà bene. Sant’Ignazio cominciava
gli Esercizi Spirituali parlando di una radice: «L’uomo è creato
per lodare…». E concludeva con un’altra radice: quella dell’amore. E
proponeva una contemplazione per crescere nell’amore. Non c’è vero amore, se
non mette radici. Ecco: questa è la mia predica iniziale! Ma adesso vorrei che foste voi a fare qualche domanda. […]
Cfr. «Esercizi spirituali» n, 23.
Voglio fare una riflessione sulla
nostra gente. Alcuni, per vederla, hanno camminato tre giorni, altri hanno
messo da parte denaro da sei mesi. Io posso testimoniare che sono stati
felici di vederla. Grazie! La mia domanda è questa: molti media hanno detto
che la sua visita in Myanmar è una delle più difficili e piene di sfide. È
davvero così?
Hai detto due cose. Prima hai parlato del Popolo di
Dio. Quando ho saputo che queste persone avevano viaggiato e camminato molto,
che per venire avevano risparmiato denaro, vi confesso che ho provato una grande
vergogna. Il Popolo di Dio ci insegna virtù eroiche. E ho provato vergogna di
essere pastore di un popolo che mi supera per virtù, per sete di Dio, per
senso di appartenenza alla Chiesa, perché venivano a vedere Pietro. L’ho
provata, e ringrazio Dio per avermela fatta provare. E per inciso vi dico
che, se c’è una grazia che il gesuita deve chiedere, è quella di una grande
vergogna. Sant’Ignazio ce la fa chiedere nella Prima settimana degli
Esercizi Spirituali davanti a Cristo crocifisso. Chiedete la grazia della
vergogna, per voi e per me. È una grazia! […]
Cfr. «Esercizi spirituali», n. 53-54.
Quando abbiamo saputo della sua visita,
abbiamo cominciato a sentire e pensare che noi siamo nei crocevia, come lei
ha appena detto. La sua visita per noi è una spinta in avanti in questo
senso. La questione è che spesso lei dice che bisogna avere l’odore delle
pecore. Noi qui veniamo da luoghi diversi del Paese, dove avvertiamo come
preti questo odore. Alcuni di noi sentono l’odore dei rifugiati. Come possiamo
sentire e pensare con la Chiesa, come ci chiede sant’Ignazio, percependo
questo odore così intenso che viene dal Popolo di Dio? Come sentire la
presenza del Papa?
Ai vescovi, poco tempo fa, ho parlato di due odori:
odore di pecora e odore di Dio. Noi dobbiamo conoscere l’odore di pecora, per
capire, comprendere e accompagnare, e le pecore devono percepire che emaniamo
odore di Dio. E questa è la testimonianza. Oggi la missionarietà,
grazie a Dio, non passa dal proselitismo. Papa Benedetto XVI l’ha detto chiaramente:
la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza.
Come potete sentire la presenza del Papa voi che lavorate là? Come possono
sentirla i rifugiati? Rispondere non è facile. Ho visitato finora quattro
campi di rifugiati. Tre enormi: Lampedusa, Lesbo e Bologna, che si trova nel
Nord Italia. E là il lavoro è di vicinanza. A volte non si distingue bene tra
un luogo da cui si attende di uscire e un carcere sotto un altro nome. E a
volte i campi sono veri campi di concentramento, carceri.
In Italia si vive molto intensamente questa realtà
dei rifugiati che vengono dall’Africa, perché sono là di fronte, e accadono
vere e proprie tragedie. Una persona rifugiata con cui ho parlato mi ha detto
di aver impiegato tre anni per arrivare da casa sua a Lampedusa. E in quei
tre anni è stata venduta cinque volte. Sul traffico delle giovani che vengono
ingannate e vendute ai trafficanti di prostitute a Roma, un anziano sacerdote
mi diceva ironicamente che non era sicuro se a Roma ci fossero più sacerdoti
o più giovani donne schiavizzate nella prostituzione. E sono ragazze rapite,
ingannate, portate da un posto all’altro. La Chiesa diocesana di Roma lavora
molto su questo. È un lavoro di liberazione. Poi pensiamo allo sfruttamento
dei bambini con il lavoro minorile. Pensiamo ai bambini che hanno dimenticato
il gioco e devono lavorare. Ecco la nostra «Terza settimana» degli
Esercizi Spirituali di sant’Ignazio: vedere loro è vedere Cristo
sofferente e crocifisso.
Come io mi avvicino a tutto questo? Sì, io cerco di
visitare, parlo chiaro, soprattutto con i Paesi che chiudono le loro
frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le
frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno
dovuto chiudere il cuore. E il nostro lavoro missionario deve raggiungere
anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri. Non so che
altro dire su questo tema, se non che è un tema grave. Questa sera noi
ceneremo. Molti di questi rifugiati hanno per cena un pezzetto di pane. Forse
noi prenderemo un dolce. Questo mi richiama un’immagine di Lesbo. Ci sono
stato col patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo ortodosso di Atene, Girolamo.
Lì erano tutti seduti per file, molto ordinati – erano molte migliaia –, e io
camminavo davanti; dietro di me veniva il patriarca Bartolomeo, e dopo
di lui l’arcivescovo Girolamo. Stavo salutando, e a un certo momento mi sono
accorto che i bambini mi davano la mano, ma guardavano dietro. Mi sono
domandato: «Che succede?». Mi sono voltato e ho visto che il patriarca
Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le dava ai bambini. Con una
mano salutavano me e con l’altra afferravano la caramella. Ho pensato che
forse era l’unico dolce che mangiavano da molti giorni.
E c’è un’altra immagine di Lesbo che mi ha aiutato
molto a piangere davanti a Dio: un uomo di circa trent’anni con tre
figlioletti mi ha detto: «Sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Ci
amavamo molto. Un giorno sono entrati i terroristi. Hanno visto la sua croce.
Le hanno detto di togliersela. Lei ha detto di no ed è stata sgozzata davanti
a me. Continuo ad amare mia moglie e i miei figli».
Queste cose vanno viste e vanno raccontate. Queste
cose non arrivano ai salotti delle nostre grandi città. Abbiamo l’obbligo di
denunciare e di rendere pubbliche queste tragedie umane che si cerca di
silenziare.
Cfr. «Esercizi spirituali», nn. 190-203.
CONVERSAZIONE CON I GESUITI DEL CILE
16 gennaio
2018
«Francesco, in diverse occasioni e nella
“Evangelii gaudium” ci hai messo in guardia dal
pericolo della mondanità. In quali aspetti della nostra vita di gesuiti
dovremmo stare attenti a non cadere in questa tentazione della mondanità?».
L’allarme sulla mondanità me l’ha fatto scattare l’ultimo
capitolo delle Meditazioni sulla Chiesa di Henri de Lubac. Cita un benedettino, dom
Anscar Vonier, che parla
della mondanità come del peggior male che possa capitare alla Chiesa. Questa
cosa mi ha risvegliato il desiderio di capire che cosa sia la mondanità.
Certo, sant’Ignazio ne parla negli Esercizi, nel terzo esercizio
della prima settimana, là dove chiede di scoprire gli inganni del mondo.
Il tema della mondanità è nella nostra spiritualità di gesuiti. Le tre grazie
che chiediamo in quella meditazione sono il pentimento dei peccati, cioè il
dolore dei peccati, la vergogna e la conoscenza del mondo, del demonio e
delle sue cose. Pertanto, nella nostra spiritualità la mondanità è da tenere
presente e considerare come una tentazione.
Sarebbe superficiale affermare che la mondanità è
condurre una vita troppo rilassata e frivola. Queste sono solamente
conseguenze. Mondanità è usare i criteri del mondo e seguire i criteri del
mondo e scegliere secondo i criteri del mondo. Significa fare discernimento e
preferire i criteri del mondo. Pertanto, quello che dobbiamo chiederci è
quali sono questi criteri del mondo. E questo è proprio ciò che sant’Ignazio
fa chiedere in quel terzo esercizio. E fa fare tre richieste: al
Padre, al Signore e alla Vergine, perché ci aiutino a scoprire questi
criteri. Ciascuno, dunque, deve mettersi a cercare che cosa nella propria
vita è mondano. Non basta una risposta semplice e generale. In che cosa sono
mondano io? Questa è la vera domanda. Non basta dire che cos’è la mondanità in
generale. Per esempio, non so, un professore di teologia può rendersi mondano
se va alla ricerca dell’ultima pensata per essere sempre alla moda: questo è
mondano. Ma gli esempi possono essere mille. E bisogna chiedere al Signore di
non essere ingannati cercando di discernere quale sia la propria mondanità.
«Santo Padre, lei è stato un uomo di
riforme. In quali riforme, a parte quella della Curia e della Chiesa, noi
come gesuiti possiamo appoggiarla meglio?».
Credo che una delle cose di cui la Chiesa oggi ha più
bisogno, e questa cosa è molto chiara nelle prospettive e negli obiettivi
pastorali dell’Amoris
laetitia, è il discernimento. Noi siamo abituati al «si può o
non si può». La morale usata nell’ Amoris
laetitia è la più classica morale tomista, quella di san
Tommaso, non del tomismo decadente come quello che alcuni hanno studiato. Ho
ricevuto anch’io, nella mia formazione, la maniera del pensare «si può o non
si può», «fin qui si può, fin qui non si può». Non so se ti ricordi [e qui il
Papa guarda uno dei presenti] di quel gesuita colombiano che venne a
insegnarci morale al «Collegio Massimo»; quando si venne a parlare del sesto
comandamento, uno si azzardò a fare la domanda: «I fidanzati possono
baciarsi?». Se potevano baciarsi! Capite? E lui disse: «Sì, che lo possono!
Non c’è problema! Basta però che mettano in mezzo un fazzoletto». Questa è
una forma mentis del fare teologia in generale. Una forma
mentis basata
sul limite. E ce ne portiamo addosso le conseguenze.
Se date un’occhiata al panorama delle reazioni
suscitate dall’ Amoris
laetitia, vedrete che le critiche più forti fatte contro
l’Esortazione sono sull’ottavo capitolo: un divorziato «può o non può fare la
Comunione?». E invece l’Amoris
laetitia va in una direzione completamente diversa, non entra
in queste distinzioni e pone il problema del discernimento. Che era già alla
base della morale tomista classica, grande, vera. Allora il contributo che
vorrei dalla Compagnia è di aiutare la Chiesa a crescere nel discernimento.
Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento. E a noi il Signore
ha dato questa grazia di famiglia di discernere. Non so se lo sapete, ma è
una cosa che ho già detto in altre riunioni come questa con gesuiti: alla
fine del generalato di p. Ledóchowski, l’opera culmine
della spiritualità della Compagnia è stata l’Epitome. In essa quello che voi
dovevate fare era tutto regolamentato, in un enorme miscuglio tra la Formula
dell’Istituto, le Costituzioni e le regole. C’erano
perfino le regole del cuoco. Ed era tutto mescolato, senza gerarchizzazione.
P. Ledóchowski era molto amico dell’abate generale
dei benedettini, e una volta che andò a fargli visita, gli portò quello
scritto. Poco tempo dopo, l’abate lo cercò e gli disse: «Padre generale, con
questo lei ha ammazzato la Compagnia di Gesù». E aveva ragione, perché l’Epitome toglieva qualsiasi
capacità di discernimento.
Poi è venuta la guerra. Il p. Janssens
ha dovuto guidare la Compagnia nel dopoguerra, e l’ha fatto bene, come
poteva, perché non era facile. E poi è venuta la grazia del generalato di p.
Arrupe. Pedro Arrupe con il Centro ignaziano di spiritualità, la rivista Christus e l’impulso dato agli Esercizi
spirituali ha rinnovato questa grazia di famiglia che è il discernimento.
Ha superato l’Epitome, è tornato alla lezione
dei padri, a Favre, a Ignazio.
In questo va riconosciuto il ruolo della rivista Christus a quel tempo. E poi anche
il ruolo del p. Luis González con il suo Centro di
spiritualità: è andato in giro per tutta la Compagnia a dare Esercizi spirituali.
Andavano aprendo le porte, rinfrescando questo aspetto che oggi vediamo che è
cresciuto molto nella Compagnia. Ti direi, ricordando questa storia di
famiglia, che c’è stato un momento in cui avevamo perduto – o non so se
l’avessimo perduto, diciamo che non si usava molto – il senso del
discernimento. Oggi datelo – diamolo! – alla Chiesa, che ne ha tanto bisogno.
CONVERSAZIONE CON I GESUITI DEL PERÙ
19 gennaio
2018
«Vorrei che ci dicesse qualche parola
su un tema che provoca molta desolazione nella Chiesa, e in modo speciale tra
i religiosi e nel clero, cioè il tema degli abusi sessuali. Siamo molto
segnati da questi scandali. Che cosa può dirci a questo riguardo? Una parola
di incoraggiamento…».
Ieri
ne ho parlato ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose cileni nella
cattedrale di Santiago. È la desolazione più grande che la Chiesa sta
subendo. Questo ci spinge alla vergogna, ma bisogna pure ricordare che la
vergogna è anche una grazia molto ignaziana, una grazia che sant’Ignazio
ci fa chiedere nei tre colloqui della prima settimana. E quindi
prendiamola come grazia e vergogniamoci profondamente. Dobbiamo amare una
Chiesa con le piaghe. Molte piaghe…
Ti
racconto un fatto. Il 24 marzo, in Argentina è la memoria del colpo di Stato
militare, della dittatura, dei desaparecidos… e ogni 24 marzo la Plaza de Mayo si riempie per ricordarlo.
In uno di quei 24 marzo sono uscito dall’arcivescovado e sono andato a
confessare le monache carmelitane. Al ritorno, ho preso la metropolitana, e
sono sceso non a Plaza
de Mayo,
ma sei isolati più in là. La piazza era piena… e ho percorso quegli isolati
per entrare dal lato. Mentre stavo per attraversare la strada, c’era una
coppia con un bambino di due o tre anni, più o meno, e il bambino correva
avanti. Il papà gli ha detto: «Vieni, vieni, vieni qua… Attento ai
pedofili!». Che vergogna ho provato! Che vergogna! Non si sono resi conto che
ero l’arcivescovo, ero un prete e… che vergogna!
A
volte si tirano fuori «premi di consolazione», e qualcuno perfino dice: «D’accordo, guarda le statistiche… il… non so…
70% dei pedofili si trova nell’ambito familiare, dei conoscenti. Poi nelle
palestre, nelle piscine. La percentuale dei pedofili che sono preti cattolici
non raggiunge il 2%, è dell’1,6%. Non è poi tanto…». Ma è terribile anche se
fosse uno soltanto di questi nostri fratelli! Perché Dio l’ha unto per
santificare i bambini e i grandi, e lui, invece di santificarli, li ha
distrutti. È orribile! Bisogna ascoltare che cosa prova un abusato o
un’abusata! Di venerdì – a volte lo si sa e a volte non lo si sa – mi
incontro abitualmente con alcuni di loro. In Cile pure ho avuto un incontro.
Siccome il loro processo è durissimo, restano annientati. Annientati!
Per
la Chiesa è una grande umiliazione. Mostra non soltanto la nostra fragilità,
ma anche, diciamolo chiaramente, il nostro livello di ipocrisia. Sui casi di
corruzione, nel senso dell’abuso di tipo istituzionale, è singolare il fatto
che vi siano varie Congregazioni, relativamente nuove, i cui fondatori sono
caduti in questi abusi. Sono casi pubblici. Papa Benedetto ha dovuto
sopprimere una Congregazione maschile numerosa. Il fondatore aveva seminato
queste abitudini. Era una Congregazione che aveva anche il ramo femminile, e
anche la fondatrice aveva seminato queste abitudini. Lui abusava di religiosi
giovani e immaturi. Benedetto aveva avviato il processo al ramo femminile. A
me è toccato sopprimerlo. Voi qui avete molti casi dolorosi. Ma questo è
curioso: il fenomeno dell’abuso ha toccato alcune Congregazioni nuove,
prospere.
L’abuso
in queste Congregazioni è sempre frutto di una mentalità legata al potere,
che va guarita nelle sue radici maligne. E aggiungo, anzi, che ci sono tre
livelli di abuso che vanno insieme: abuso di autorità – con ciò che significa
mescolare il foro interno e quello esterno –, abuso sessuale, e pasticci
economici.
Il
denaro c’è sempre di mezzo: il diavolo entra dal portafoglio. Ignazio mette
il primo gradino delle tentazioni del demonio proprio nella ricchezza… poi
vengono la vanità e la superbia, ma per prima c’è la ricchezza. Nelle
Congregazioni nuove che sono cadute in questo problema degli abusi spesso i
tre livelli si trovano insieme.
Perdonando
la mancanza di umiltà, ti suggerirei di leggere quello che ho detto ai
cileni, che è più pensato e più ragionato di quanto potrebbe venirmi da dire
ora a braccio.
Cfr.
«Esercizi spirituali», n. 63.
«Ci aiuti in questo processo di
discernimento, che è della Compagnia universale. Il Proposito generale p. Sosa ci chiama a riflettere verso dove la Compagnia deve
andare di questi tempi, considerando le nostre debolezze e le nostre forze.
Lei ha una visione universale, ci conosce bene, sa quale potrebbe essere il
nostro contributo alla Chiesa universale. Potrebbe aiutarci dicendo, per
esempio, come vede che lo Spirito adesso stia muovendo la Chiesa verso il
futuro, verso l’avvenire. Verso dove dovremmo seguire i sentieri dello
Spirito, da gesuiti, nel luogo in cui siamo – e non soltanto nella provincia
del Perù – per mantenerci al suo servizio. Alcune linee che potrebbero
trasformarsi in parte del nostro programma…».
Grazie.
Ti rispondo con una parola sola. Sembrerà che non dico nulla, e invece dico
tutto.
E
questa parola è «Concilio». Riprendete in mano il Concilio Vaticano II,
rileggete la Lumen gentium. Ieri con i vescovi cileni
– o l’altro ieri, non so più che giorno è oggi! – li esortavo alla declericalizzazione. Se c’è una cosa molto chiara, è la
coscienza del santo popolo fedele di Dio, infallibile in
credendo,
come ci insegna il Concilio. Questo porta avanti la Chiesa. La grazia della missionarietà e dell’annuncio di Gesù Cristo ci viene
data con il battesimo. Da lì possiamo andare avanti…
Non
bisogna mai dimenticare che l’evangelizzazione viene fatta dalla Chiesa come
popolo di Dio. Il Signore vuole una Chiesa evangelizzatrice, lo vedo con
chiarezza. È quello che mi è venuto dal cuore e con semplicità nei pochi
minuti in cui ho parlato nelle Congregazioni generali previe al Conclave. Una
Chiesa che va verso fuori, una Chiesa che esce ad annunciare Gesù Cristo.
Dopo o nel momento stesso in cui lo adora e si riempie di Lui. Uso sempre un
esempio legato all’Apocalisse, dove leggiamo: «Sto alla porta e busso. Se
qualcuno mi apre, entrerò». Il Signore è fuori e vuole entrare. A volte però
il Signore è dentro e bussa affinché lo lasciamo uscire! A noi il Signore sta
chiedendo di essere Chiesa fuori,
Chiesa in uscita. Chiesa fuori. Chiesa ospedale da campo… Ah, le ferite del
popolo di Dio! A volte il popolo di Dio è ferito da una catechesi rigida, moralista,
del «si può o non si può», o da un’assenza di testimonianza.
Una
Chiesa povera per i poveri! I poveri non sono una formula teorica del partito
comunista. I poveri sono il centro del Vangelo. Sono il centro del Vangelo!
Non possiamo predicare il Vangelo senza i poveri. Allora ti dico: è su questa
linea che sento che ci sta portando lo Spirito. E ci sono forti resistenze.
Ma devo anche dire che per me il fatto che nascano resistenze è un buon
segno. È il segno che si va per la via buona, che la strada è questa.
Altrimenti il demonio non si affannerebbe a fare resistenza.
Ti
direi che questi sono i criteri: la povertà, la missionarietà,
la coscienza di popolo fedele di Dio… In America Latina, in particolare,
dovreste chiedervi: «Ma dov’è che il nostro popolo è stato creativo?». Con
alcune deviazioni, sì, ma è stato creativo nella pietà popolare. E perché il
nostro popolo è stato capace di essere così creativo nella pietà popolare?
Perché ai chierici non interessava, e allora lasciavano fare… e il popolo
andava avanti…
E
poi, sì, quello che la Chiesa oggi chiede alla Compagnia – questo l’ho già
detto dappertutto, e Spadaro, che pubblica queste cose, si è già stancato di
scriverlo – è di insegnare con umiltà a discernere. Sì, questo ve lo chiedo
ufficialmente da Pontefice. In generale, soprattutto noi che rientriamo nella
cornice della vita religiosa, sacerdoti, vescovi, a volte dimostriamo poca
capacità di discernere, non lo sappiamo fare, perché siamo stati educati in
un’altra teologia, forse più formalista. Ci fermiamo al «si può o non si
può», come dicevo anche ai gesuiti cileni a proposito delle resistenze all’ Amoris laetitia. Qualcuno riduce tutto il risultato di due
Sinodi, tutto il lavoro fatto, al «si può o non si può». Aiutateci, dunque, a
discernere. Certo, non può insegnare a discernere chi non sa discernere. E
per discernere si deve entrare in esercizi, bisogna esaminarsi.
Bisogna cominciare sempre da se stessi.
SANTA MESSA E BENEDIZIONE DEI PALLI PER I NUOVI ARCIVESCOVI
METROPOLITI
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
29 giugno 2018
Davanti
a questo annuncio così inatteso, Pietro reagisce: «Dio non voglia, Signore;
questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22) e si trasforma immediatamente in pietra
d’inciampo sulla strada del Messia; e credendo di difendere i diritti di Dio,
senza accorgersi si trasformava in suo nemico (lo chiama “Satana”, Gesù).
Contemplare la vita di Pietro e la sua confessione significa anche imparare a
conoscere le tentazioni che accompagneranno la vita del discepolo. Alla
maniera di Pietro, come Chiesa, saremo sempre tentati da quei “sussurri” del
maligno che saranno pietra d’inciampo per la missione. E dico “sussurri”
perché il demonio seduce sempre di nascosto, facendo sì che non si riconosca
la sua intenzione, «si comporta come un falso nel volere restare occulto e
non essere scoperto» (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 326).
MEDITAZIONE MATTUTINA
4 settembre 2018
Fare
tutte le sere l’«esame di coscienza»
come una preghiera, per individuare se a muoverci nella giornata è stato «lo
spirito di Dio o lo spirito del mondo», è un’esercizio
decisivo nel nostro «combattimento spirituale» che ci porta «a capire il
cuore» e «il senso di Cristo». È il suggerimento che Papa Francesco ha
proposto nella messa celebrata martedì 4 settembre a Santa Marta, ricordando
che «il cuore dell’uomo è come un campo di battaglia» dove si affrontano di
continuo «lo spirito di Dio, che ci porta alle opere buone, alla carità, alla
fraternità», e «lo spirito del mondo che» invece «ci porta verso la vanità,
l’orgoglio, la sufficienza, il chiacchiericcio».
«Nella
prima lettura — ha fatto subito presente, riferendosi al brano della prima
lettera ai Corinzi (2, 10-16) — l’apostolo Paolo Insegna ai Corinzi la strada
per avere il pensiero di Cristo, il sentimento di Cristo, per avere
quell’atteggiamento che era quello di Cristo». E «la strada è quella del
lasciare fare in noi lo Spirito Santo ricevuto». San Paolo Infatti scrive che
«voi tutti, noi tutti abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio».
«È
lo Spirito Santo che ti porta avanti nella vita — ha spiegato Francesco — e
ti porta a quello scopo di conoscere Gesù, di avere gli stessi sentimenti di
Gesù». In realtà, ha affermato, «noi possiamo studiare tanto, studiare la
Bibbia, studiare storia, studiare teologia, ma quella non è la strada per
arrivare ai sentimenti di Gesù: aiuta, aiuta tanto, ma la strada vera è
lasciarsi portare avanti dallo Spirito, dallo Spirito Santo». Ed «è proprio
lo Spirito Santo — ha aggiunto il Pontefice — che ci porta avanti al cuore di
Gesù, a capire chi è Gesù, come attua Gesù, cosa vuole Gesù, qual è la
volontà di Gesù. A capire il cuore di Gesù».
La
questione è: «come possiamo andare?». San Paolo afferma che «l’uomo lasciato
alle sue forze non comprende le cose dello Spirito». Dunque, ha spiegato
Francesco, «abbiamo bisogno dello Spirito Santo per questo cammino, questo
cammino cristiano». Sempre nella lettera ai Corinzi, l’apostolo spiega anche
che «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio».
In
effetti, ha rilanciato il Papa, «ci sono due spiriti, due modalità di
pensare, di sentire, di agire: quella che mi porta allo Spirito di Dio e
quella che mi porta allo spirito del mondo». E «questo succede nella nostra
vita: noi tutti abbiamo questi due “spiriti”, diciamo così». C’è «lo
spirito di Dio, che ci porta alle opere buone, alla carità, alla fraternità,
a adorare Dio, a conoscere Gesù, a fare tante opere buone di carità, a
pregare». Ma c’è anche «l’altro spirito del mondo, che ci porta verso la
vanità, l’orgoglio, la sufficienza, il chiacchiericcio: tutta un’altra
strada».
«Il
nostro cuore, diceva un santo, è come un “campo di battaglia, un campo di
guerra dove questi due spiriti lottano” e chiamava questo il “combattimento
spirituale”» ha ricordato il Pontefice. «Nella vita cristiana si deve
combattere per lasciare spazio allo spirito di Dio e cacciare via — come Gesù
ha cacciato questo demonio — lo spirito del mondo» ha spiegato, riferendosi
al passo evangelico di Luca (4, 31-37) proposto oggi dalla liturgia.
A
questo proposito Francesco ha suggerito «una preghiera bella che noi possiamo
fare tutti i giorni, prima di andare a letto, guardare un po’ la giornata» e
domandarsi: «Ma quale spirito ho io oggi seguito? Lo spirito di Dio o lo
spirito del mondo?». E il Papa ha fatto notare che «questo si chiama fare l’esame
di coscienza: sentire nel cuore cosa è successo in questa guerra interiore, e
come io mi sono difeso dallo spirito del mondo che mi porta alla vanità, alle
cose basse, ai vizi, alla superbia, a tutto questo». Dunque, «come mi
sono difeso dalle tentazioni concrete?». Si devono «individuare le
tentazioni». E «questo si fa come preghiera, prima di andare a letto,
oggi: quali sentimenti ho avuto. Individuare qual è lo spirito che mi ha
spinto a quel sentimento, mi ha ispirato quel sentimento: è lo spirito del
mondo o lo spirito di Dio?».
Facendo
l’esame di coscienza con questa preghiera serale, ha affermato il
Pontefice «tante volte, se siamo onesti, troveremo che “oggi sono stato
invidioso, ho avuto cupidigia, ho fatto questo”». E «questo è lo spirito del
mondo». Ma, ha insistito Francesco, è opportuno «individuarli» questi
sentimenti, «perché questo è vero: tutti noi abbiamo dentro questa lotta,
ma se noi non capiamo come funzionano questi due spiriti, come agiscono, non
riusciamo ad andare avanti con lo spirito di Dio che ci porta a conoscere il
pensiero di Cristo, il senso di Cristo».
In
realtà, ha fatto notare il Papa, «è molto semplice: abbiamo questo gran dono,
che è lo spirito di Dio, ma siamo fragili, siamo peccatori e abbiamo anche la
tentazione dello spirito del mondo». E «in questo combattimento spirituale,
in questa guerra dello spirito, bisogna essere vincitori come Gesù, ma è
necessario sapere quale strada si percorre». Proprio «per questo è tanto
utile l’esame di coscienza, alla sera rivedere la giornata e dire:
“sì, oggi sono stato tentato qui, ho vinto qui, lo Spirito Santo mi ha dato
questa ispirazione”». Insomma, si tratta di «conoscere cosa succede nel
cuore».
E,
ha messo in guardia il Pontefice, «se noi non facciamo questo, se noi non
sappiamo cosa succede nel nostro cuore — e questo non lo dico io, lo dice la
Bibbia — siamo come gli “animali che non capiscono nulla”, vanno avanti con
l’istinto». Però «noi non siamo animali, siamo figli di Dio, battezzati con
il dono dello Spirito Santo». E «per questo — ha concluso Francesco — è
importante capire cosa è successo oggi nel mio cuore. Il Signore ci insegni a
fare sempre, tutti i giorni, l’esame di coscienza».
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.
INCONTRO CON I GESUITI LITUANI
23 settembre
2018
«Vorrei
chiedere un favore per la nuova residenza dei gesuiti a Riga. È una casa
di esercizi spirituali. Il patrono è san Pietro Favre. Un fratello
gesuita di Varsavia ne ha dipinto il ritratto. Le chiediamo di benedirlo e di
dare la sua benedizione alla nostra opera, che è molto importante anche dal
punto di vista ecumenico. Infatti, come le diceva il provinciale, pure i
luterani della Lettonia sono interessati agli Esercizi. L’arcivescovo
luterano di Riga ha fatto il mese ignaziano per intero in Inghilterra
e poi ha rifatto gli Esercizi in Spagna, a Manresa. Per lui gli Esercizi
sono molto importanti. E questo è anche un buon segno ecumenico in un tempo
di laicismo come il nostro».
Sì,
anch’io conosco un gesuita che fa gli Esercizi insieme ai luterani. È
bene che sia Favre a essere protettore della casa: è l’uomo del dialogo,
dell’ascolto, della vicinanza, del cammino. Era diverso dal Canisio. Non era l’uomo del confronto, della disputa.
Aveva quella dolcezza spirituale che si comprende bene leggendo il suo
Memoriale. E lavorava con l’aiuto degli angeli. Pregava il suo angelo di
parlare agli angeli delle persone con le quali aveva appuntamento. Una bella
“mafia” di angeli! Il cardinale Arborelius di
Stoccolma dà ritiri ai pastori luterani. Ricordiamoci di questo: il dialogo è
per sommare, non per sottrarre. Vi auguro davvero che la vostra opera di Esercizi
vada per il meglio. I giovani che sentono il desiderio di fare gli Esercizi
fanno un’esperienza bellissima. Avanti, dunque!
«Santo Padre, lei ha detto che dobbiamo scendere
per strada, dove c’è la gente. Ha detto che la Chiesa è un ospedale da campo.
Ha detto che non dobbiamo avere paura del caos. E il mondo oggi sembra nel
caos. Come possiamo affrontarlo senza avere paura?».
Guarda, se tu nel caos ci entri da solo, è meglio che
tu abbia paura, perché finirai male. Ma se tu entri con la grazia del
colloquio spirituale con il tuo Provinciale, con la tua comunità, se lo fai
come missione e con il Signore, allora quella paura che provi viene dal
cattivo spirito. Hai ragione, oggi c’è caos. È la cattedra di fuoco e fumo
di cui sant’Ignazio parla nella meditazione delle due bandiere. Ma con il
Signore non c’è da aver paura. Con il Signore, però, non con i propri
capricci!
Dio è forte, Dio è più forte. Lo dicevo prima,
ricordando Hugo Rahner: bisogna avere la capacità di entrare nei due campi,
anche in quello del nemico dell’uomo, nel caos. Ne approfitto perché mi dai
lo spunto per parlare di una cosa che avevo in mente di dirvi oggi. Vi dicevo
di entrare nel caos o nelle situazioni difficili non da soli, ma con il
Signore, e nel dialogo con il superiore e con la comunità. E qui viene il
tema del «rendiconto di coscienza». Non abbiate paura! Il Provinciale è un
fratello. Forse domani toccherà a lui fare il rendiconto di coscienza a te.
La grazia in questo rendiconto è che il superiore e il suddito sono due
fratelli che si comunicano per servire meglio il Signore. Non è una sessione
di domande e risposte. Il Provinciale deve coinvolgersi nella vita dell’altro
che ascolta. E pure il gesuita che fa il rendiconto deve coinvolgersi nella
vita del suo superiore. È un dialogo di interazione nel quale si sciolgono
tutti i conflitti con i superiori. E la Compagnia diventa corpo per
affrontare il caos. Sempre avanti in comunità e fratellanza.
Cfr «Esercizi spirituali», n. 140.
ALLA COMUNITÀ DEL COLLEGIO INTERNAZIONALE DEL GESÙ DI ROMA
3 dicembre 2018
Cari
fratelli, buongiorno!
Grazie per la vostra visita, sono contento. Voi
ricordate quest’anno il 50° del Collegio del Gesù, aperto per iniziativa di
Padre Arrupe nel 1968. Nel cinquantesimo anno, quello del giubileo, la
Scrittura dice che «ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia»
(Lv 25,10). Ma nessuno deve fare le valigie! Tutti,
però, siete chiamati a tornare nel “luogo” che vi è proprio, a «desiderare
ciò che è essenziale e originario» (S. Pietro Favre, Memoriale, 63), a
rivisitare quella famiglia in cui Dio vi ha rigenerato, dove avete professato
l’appartenenza a Lui. Dio vi ha fondati come Gesuiti: questo giubileo è un
momento di grazia per fare memoria e sentirvi con la Chiesa, in una Compagnia
e in un’appartenenza che hanno un nome: Gesù.
Fare memoria vuol dire fondarsi nuovamente in Gesù,
nella sua vita. Significa ribadire un “no” chiaro alla tentazione di vivere
per sé stessi; riaffermare che, come Gesù, esistiamo per il Padre (cfr Gv 6,57); che, come Gesù, dobbiamo vivere per servire,
non per essere serviti (cfr Mc 10,45). Fare memoria
è ripetere con l’intelligenza e la volontà che alla vita del gesuita basta la
Pasqua del Signore. Non serve altro. Farà bene riprendere la seconda
settimana degli Esercizi, per rifondarsi sulla vita di Gesù, in cammino
verso la Pasqua. Perché formarsi è anzitutto fondarsi. Su questo mi permetto
di consigliarvi, di tornare sul Colloquio del servizio per essere come
Gesù, per imitare Gesù, che svuotò sé stesso, si annientò o obbedì fino alla
morte; il Colloquio che ti porta fino al momento di chiedere con
insistenza calunnie, persecuzioni, umiliazioni. Questo è il criterio,
fratelli! Se qualcuno non riesce in questo, ne parli con il padre spirituale.
Imitare Gesù. Come Lui, su quella strada che Paolo ci dice in Filippesi 2,7,
e non avere paura di chiederlo, perché è una beatitudine: “Beati sarete
quando diranno cose brutte di voi, vi calunnieranno, vi perseguiteranno…”.
Questa è la vostra strada: se voi non riuscite a fare quel Colloquio con
il cuore e dare tutta la vita, convinti e chiedere questo, non sarete ben
radicati.
Fondarsi, dunque, è il primo verbo che vorrei
lasciarvi. Ne scriveva San Francesco Saverio, che oggi festeggiamo: «Vi
prego, in tutte le vostre cose, di fondarvi totalmente in Dio» (Lettera 90 da
Kagoshima). In tal modo, aggiungeva, non c’è avversità a cui non si possa
essere preparati. Voi abitate la casa dove Sant’Ignazio visse, scrisse le
Costituzioni e inviò i primi compagni in missione per il mondo. Vi fondate
sulle origini. È la grazia di questi anni romani: la grazia del fondamento,
la grazia delle origini. E voi siete un vivaio che porta il mondo a Roma e
Roma nel mondo, la Compagnia nel cuore della Chiesa e la Chiesa nel cuore
della Compagnia.
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 146-147.
DIALOGO CON I GESUITI DELL’AMERICA CENTRALE
26 gennaio
2019
Tra poco alcuni di noi faranno la
professione dei voti. Che cosa può dirci?
Che i voti sono perpetui! Non sono perpetui per il
superiore che li riceve, ma per voi che li pronunciate, sì. E su questo non
si scherza. Se qualcuno non si sente bene, non li faccia, si prenda altro
tempo. Provarci? No, niente affatto. Da parte tua, sono perpetui, per tutta
la vita.
Giocarsi la vita: è una delle cose più arrischiate che
ci siano oggi. Infatti, siamo in un’epoca in cui il provvisorio prevale sul
definitivo. Sempre. […] Tutto c’è finché dura. Finché dura la consolazione,
finché mi trattano bene…
E a volte la vita non ti tratta bene, ti tratta come
un delinquente. E se tu ami Colui che è stato trattato come un delinquente,
non puoi fare altro che sopportare. È definitivo, con tutto quello che
comporta la «terza settimana» degli Esercizi spirituali[9]. Con tutto
quello che significa il colloquio delle «Due bandiere»[10], che non è una trovata
cavalleresca di Ignazio, ma è la sua esperienza. Il che implica chiedere di
essere umiliati, di subire umiliazioni, per amore di Cristo, senza averne
dato motivo. I voti sono perpetui, con uno stile di vita che dev’essere
quello degli Esercizi, secondo il quale ti possono mandare a fare
qualsiasi lavoro, qualsiasi cosa: tanto insegnare religione ai bambini quanto
insegnare all’università, o fare, che so, l’equilibrista in un circo… La
Compagnia può mandarti a fare qualsiasi cosa. È questo che intendo per
definitivo. Il tempo, definitivo; lo stile, quello degli Esercizi;
la disponibilità, a qualsiasi cosa. Per amare e servire, come cantavate
all’inizio. Non dicevate per simpatizzare e dare una mano. Amare e servire è
il nucleo. Non spaventatevi! Coraggio.
[9] Si tratta della terza tappa degli Esercizi spirituali,
nella quale si contempla il mistero della Passione del Signore.
[10] Si tratta di una meditazione della «seconda settimana»
degli Esercizi, prima di passare alla elezione dello stato di vita. Ignazio
chiede di meditare su «come Cristo chiama e vuole tutti sotto la sua
bandiera, e Lucifero al contrario sotto la sua», anche «vedendo il luogo»,
cioè immaginando la «regione di Gerusalemme come un grande campo, dove il
sommo capitano generale dei buoni è Cristo nostro Signore; e nella
regione di Babilonia com’è l’altro campo, dove il capo dei nemici è
Lucifero». L’obiettivo è quello di «chiedere conoscenza degli inganni del
cattivo capo e aiuto per guardarmene; e conoscenza della vita vera che
il Sommo e Vero Capitano indica e grazia per imitarlo».
CONVERSAZIONE CON I GESUITI DI ROMANIA
31 maggio 2019
«Ci parli delle
consolazioni che la stanno accompagnando».
Mi
piace questo linguaggio! Non mi chiedi che cosa possiamo fare qua o là. Mi
chiedi delle consolazioni e delle desolazioni. La precedente era una domanda
sulle desolazioni, questa è una domanda sulle consolazioni. L’esame di
coscienza deve dare conto di questi moti dell’anima. Quali sono le vere
consolazioni? Quelle nelle quali il passo del Signore si fa presente. Dove io
trovo le più grandi consolazioni? Nella preghiera il Signore si fa sentire. E
poi le trovo con il popolo di Dio. In particolare con gli ammalati e i
vecchietti, che sono un tesoro. Andate a visitare gli anziani! E poi con i
giovani che sono inquieti e cercano testimonianze vere. Il popolo di Dio
capisce meglio di noi le cose. Il popolo di Dio ha un senso, il sensus fidei,
che ti corregge la linea e ti mette sulla strada giusta. Ma dovete sentire le
cose che mi dice la gente quando la incontro nelle udienze! Hanno fiuto per
capire le situazioni. […]
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.
«Sono parroco a Satu Mare, nel nord del Paese. Noi abbiamo la parrocchia
in città e poi ci sono due villaggi quasi nel bosco. Quel che mi fa più male
è l’indifferenza».
Una
delle grandi tentazioni di oggi è l’indifferenza. Viviamo la tentazione
dell’indifferenza, che è la forma più moderna del paganesimo. Nell’indifferenza
tutto è centrato sull’io. Non c’è capacità di prendere posizione su ciò che
accade. Uno dei fotografi dell’Osservatore
Romano, un artista, ha fatto una foto dal titolo «Indifferenza».
Nell’immagine si vede una signora molto ben vestita, con una pelliccia e un
bel cappello, che esce in una notte d’inverno da un ristorante di lusso. E
poi nella foto accanto a lei c’è una signora per terra che chiede
l’elemosina. Ma la signora guarda da un’altra parte. A me questa fotografia
ha fatto tanto pensare. È quella che noi in spagnolo chiamiamo la calma chicha.
Come dite voi in italiano? Calma piatta. Sant’Ignazio ci dice che se c’è
indifferenza e non ci sono né consolazioni né desolazioni non va bene. Se
nulla si muove, si deve guardare che cosa succede. E anche a noi farà bene
aprire gli occhi sulla realtà e guardare ciò che accade. Grazie per la tua
domanda: significa che non sei un indifferente!
Torniamo
agli Esercizi spirituali, e cerchiamo di capire perché viviamo
un’indifferenza interiore senza consolazioni né desolazioni. Perché in
quella parrocchia o in quella situazione sociale c’è indifferenza? Come posso
io aiutare a smuovere le acque? L’indifferenza è una forma di cultura della
mondanità spirituale. Attenzione però a non confonderla con quella che per sant’Ignazio
è una «indifferenza buona». L’indifferenza buona è quella che bisogna
avere davanti alle scelte di vita e che ci permette di non essere vinti da
passioni forti, ma passeggere e volatili, che ci confondono. Ci sono
indifferenze diverse: quella buona e quella cattiva.
A
me preoccupa la cultura dell’indifferenza cattiva, dove tutto è calma piatta,
dove non si reagisce alla storia, quando non si ride e non si piange. Una
comunità che non sa ridere e non sa piangere non ha orizzonti. È chiusa nei
muri dell’indifferenza.
«Indifferenza
cattiva»: cfr «Esercizi spirituali», n. 14.
«Indifferenza
buona»: cfr «Esercizi spirituali», n. 23.
DIALOGO CON I GESUITI DEL MOZAMBICO
5 settembre 2019
[…]
un pensiero sulle preferenze apostoliche della Compagnia[2]
e un consiglio su come viverle in Mozambico
Non
è facile ricostruire una società divisa. Voi vivete in un Paese che ha
vissuto lotte tra fratelli. Penso che, ad esempio, la preferenza apostolica che
riguarda gli Esercizi spirituali possa aiutare molto in questo
contesto. Si possono dare Esercizi a persone impegnate nei diversi
settori della società e così renderle più adatte a svolgere il loro compito
per unire e riconciliare. Si tratta dell’esperienza del discernimento
spirituale che guida all’azione.
Serve un adeguato
accompagnamento, specialmente se nella società e nella nazione c’è
bisogno di unità, di riconciliazione. Sappiamo che, a volte, l’ottimo è
nemico del bene, e in un momento di riconciliazione vanno inghiottiti molti
rospi. In questo processo, si deve insegnare ad avere pazienza. Serve la
pazienza del discernimento per andare all’essenziale e mettere da parte
l’accidentale. Ci vuole davvero tanta pazienza, a volte! Poi, però, serve anche
insegnare i contenuti, cioè la dottrina sociale della Chiesa. Ma attenzione:
in ogni caso il gesuita non deve dividere. C’è bisogno di riconciliazione
nella società del Mozambico: unire, unire, unire, unire, unire, avere
pazienza, aspettare. Mai fare un passo per dividere. Noi siamo uomini del
tutto, non della parte.
Tu lavori nell’apostolato
educativo, e stai in mezzo ai giovani. Il tuo lavoro è importante e
impegnativo. I giovani hanno buona volontà, ma possono essere una facile
preda dell’inganno, dell’impazienza. È necessario essere vicini ai giovani,
dare loro spazio perché possano discernere ciò che accade nel loro cuore. La
formazione considera insieme le idee e i sentimenti. Per agire bene bisogna
sempre considerare le idee e i sentimenti che si provano. Ad esempio, bisogna
aiutare i più giovani a riconoscere quando vivono nella rassegnazione, e
quindi nella stagnazione. E anche a riconoscere quando invece vivono una sana
inquietudine. Insomma, serve un’opera di discernimento spirituale, di accompagnamento
per il bene della società.
[2] Un ampio processo di
ascolto e di discernimento ha permesso alla Compagnia di Gesù di presentare
al Santo Padre quattro preferenze apostoliche universali, che sono le
seguenti: 1) Indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi
spirituali e il discernimento. 2) Camminare insieme ai poveri, agli
esclusi del mondo, feriti nella propria dignità, in una missione di
riconciliazione e di giustizia. 3) Accompagnare i giovani nella creazione di
un futuro di speranza. 4) Collaborare nella cura della «casa comune».
CAPPELLA PAPALE IN SUFFRAGIO
DEI CARDINALI E DEI VESCOVI DEFUNTI NEL CORSO DELL'ANNO
4 novembre 2019
Infine,
un terzo stimolo in vista della risurrezione. Lo prendo dagli Esercizi
spirituali, dove Sant’Ignazio suggerisce, prima di prendere una
decisione importante, di immaginarsi al cospetto di Dio alla fine dei giorni.
Quella è la chiamata a comparire non rimandabile, il punto di arrivo per
tutti, per tutti noi. Allora, ogni scelta di vita affrontata in quella
prospettiva è ben orientata, perché più vicina alla risurrezione, che è il
senso e lo scopo della vita. Come la partenza si calcola dal traguardo, come
la semina si giudica dal raccolto, così la vita si giudica bene a partire
dalla sua fine, dal suo fine. Sant’Ignazio scrive: «Considerando come mi
troverò il giorno del giudizio, pensare come allora vorrei aver deciso
intorno alla cosa presente; e la regola che allora vorrei aver tenuto,
prenderla adesso» (Esercizi spirituali, 187). Può essere un esercizio
utile per vedere la realtà con gli occhi del Signore e non solo con i nostri;
per avere uno sguardo proiettato sul futuro, sulla risurrezione, e non solo
sull’oggi che passa; per compiere scelte che abbiano il sapore dell’eternità,
il gusto dell’amore.
DISCORSO AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO DEL
SEGRETARIATO
PER LA GIUSTIZIA SOCIALE E L'ECOLOGIA DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
7 novembre 2019
I
poveri, luogo d’incontro con il Signore
Ogni
anno la liturgia ci invita a contemplare Dio nel candore di un bambino
escluso, che veniva tra la sua gente, ma non fu accolto (cfr. Gv 1, 11).
Secondo sant’Ignazio, un’ancella — un’ancella, una persona, una giovane che
serve — assiste la Santa Famiglia (cfr. Esercizi Spirituali, nn. 114).
Insieme a lei, Ignazio ci esorta a essere anche noi lì presenti, «mi
faccio come un piccolo e indegno servitorello
guardandoli, contemplandoli e servendoli nelle loro necessità» (Ibid). Questo non è poesia né pubblicità, questo
Ignazio lo sentiva. E lo viveva.
Questa
contemplazione attiva di Dio, di Dio escluso, ci aiuta a scoprire la bellezza
di ogni persona emarginata. Nessun servizio sostituisce l’«apprezzare
il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua
cultura, con il suo modo di vivere la fede» (Esortazione apostolica Evangelii
gaudium, n. 199).
Nei
poveri voi avete trovato un luogo privilegiato d’incontro con Cristo. È
questo un dono prezioso nella vita del seguace di Cristo: ricevere il dono di
incontrarlo tra le vittime e i poveri.
L’incontro
con Cristo tra i suoi prediletti affina la nostra fede. Così successe nel
caso della Compagnia di Gesù, la cui esperienza con gli ultimi ha
approfondito e rafforzato la fede. «La nostra fede si è fatta più pasquale,
più compassionevole, più tenera, più evangelica nella sua semplicità»
(Congregazione Generale 34 della Compagnia di Gesù, 1995, d. 2, n. 1), in
modo particolare nel servizio dei poveri.
Voi
avete vissuto una vera trasformazione personale e corporativa nella
contemplazione silenziosa del dolore dei vostri fratelli. Una trasformazione
che è una conversione, un tornare a guardare il volto del crocifisso, che
c’invita ogni giorno a restare accanto a lui e a deporlo dalla croce.
Non
smettete di offrire questa familiarità con i vulnerabili. Il nostro mondo
spezzato e diviso ha bisogno di costruire ponti affinché l’incontro umano
permetta a ognuno di noi di scoprire negli ultimi il bel volto del fratello,
nel quale ci riconosciamo, e la cui presenza, pur senza parole, esige nel suo
bisogno la nostra cura e la nostra solidarietà.
PRESENTAZIONE DEGLI SCRITTI DI
M. A. FIORITO
13
dicembre 2019
Che
cosa si domanderebbe Fiorito riguardo a un’edizione dei suoi Escritos come questa? Forse in primo luogo se ne valesse la pena, dato
che non è un autore conosciuto, salvo forse nell’ambito ristretto degli
studiosi di sant’Ignazio. Ma credo concorderebbe sul fatto che i suoi scritti
possono interessare quanti accompagnano spiritualmente e danno gli
Esercizi, tutte persone desiderose di un aiuto pratico per guidare altri
e per proporre gli Esercizi con più frutto. […]
Il
fatto stesso di presentare gli Scritti in quest’aula della Curia
generalizia è per me un modo per esprimere la mia gratitudine per tutto ciò
che la Compagnia di Gesù mi ha dato e ha fatto per me. Nella persona del
Maestro Fiorito sono compresi tanti gesuiti che sono stati miei formatori, e
qui voglio fare una menzione particolare di tanti fratelli coadiutori,
Maestri con l’esempio gioioso di restare semplici servitori per tutta la
vita.
Allo
stesso tempo è anche un modo per ringraziare e per incoraggiare tanti uomini
e donne che, fedeli al carisma dell’accompagnamento spirituale, guidano,
sostengono e appoggiano i loro fratelli in quel compito che nella recente Lettera
ai sacerdoti ho descritto come la strada che comporta «fare l’esperienza di sapersi
discepoli». Non solo quella di esserlo, che è già tanto, ma anche di saperlo
(riflettendo spesso su questa grazia per ricavarne frutto, come dice
Ignazio negli Esercizi). Infatti il Signore non insegna da solo e nemmeno
da una cattedra lontana, ma fa «Scuola» e insegna attorniato dai suoi
discepoli che a loro volta sono maestri di altri, e in noi questa
consapevolezza rende feconda la sua Parola e la moltiplica. […]
Cfr «Esercizi spirituali», n. 106.
Ho
conosciuto Fiorito nel 1961, al ritorno dal mio juniorato
in Cile. Era professore di Metafisica nel Collegio Massimo di san Giuseppe,
la nostra casa di formazione a San Miguel, in provincia di Buenos Aires. Da
allora cominciai a confidarmi con lui, divenne il mio direttore spirituale.
Attraversava un processo profondo che lo avrebbe portato a lasciare
l’insegnamento della filosofia per dedicarsi totalmente a scrivere di
spiritualità e a dare Esercizi. Il volume II, nell’anno 1961-62,
riporta l’articolo: «Il cristocentrismo del “Principio e fondamento”
di sant’Ignazio». Mi aveva molto ispirato. È stato là che ho cominciato a
prendere confidenza con alcuni autori che mi accompagnano da allora: Guardini, Hugo Rahner, col suo libro sulla genesi storica
della spiritualità di sant’Ignazio, Fessard e la
sua Dialettica degli Esercizi.
Fiorito
faceva notare, in quel contesto, «la coincidenza tra l’immagine del Signore,
soprattutto in san Paolo, come la spiega Guardini,
e l’immagine del Signore come noi a nostra volta crediamo di trovarla negli
Esercizi di sant’Ignazio». Fiorito sosteneva che il «Principio e
fondamento» non contiene soltanto un cristocentrismo, ma una vera e
propria «Cristologia in germe». E mostrava che quando sant’Ignazio usa
l’espressione «Dio nostro Signore» sta parlando concretamente di
Cristo, del Verbo fatto carne, Signore non soltanto della storia ma anche
della nostra vita pratica. […]
Cfr «Esercizi spirituali», n. 23.
Scriveva
Fiorito nel 1956: «Da parte mia, confesso che da tempo rifletto sulla
spiritualità ignaziana. Per lo meno fin da quando ho fatto con serietà i miei
primi Esercizi spirituali, sentendo un avvicendarsi di spiriti
contrari, che a poco a poco andavano personalizzandosi nei due termini di una
scelta personale». Quella riflessione proseguì «Fino a che la lettura di un
libro, arrivato nelle mie mani nel modo più banale e prosaico – come libro di
lettura per imparare il tedesco – è stata per me non tanto la rivelazione
luminosa di una possibilità di espressione, ma l’espressione compiuta di
quell’ideale da tempo intuito». Fiorito aggiunge: «Quello che avrebbe dovuto
essere il mio lavoro di molti anni, era l’istantanea accettazione dei
risultati di un lavoro altrui», quello di Hugo Rahner. […]
Fiorito
aveva il dono delle lacrime, che è espressione di consolazione
spirituale[17].
[17]
«Si intende per consolazione quando […] l’anima si infiamma di amore per il
suo Creatore e Signore […] così pure quando uno versa lacrime che lo portano
all’amore del Signore» (ES 316).
Parlando
dello sguardo del Signore nella prima settimana degli Esercizi,
Fiorito commentava l’importanza che san Benedetto dava alle lacrime e diceva
che «le lacrime sono un piccolo segno tangibile della dolcezza di Dio che a
malapena si manifesta all’esterno, ma non cessa di impregnare il cuore nel
raccoglimento interiore». […]
Cfr «Esercizi spirituali», n. 55.
A
proposito della misericordia, gli scritti di Fiorito distillano misericordia
spirituale: insegnamenti per chi non sa, buoni consigli per chi ne ha
bisogno, correzione per chi sbaglia, consolazione per chi è triste e aiuti
per conservare la pazienza nella desolazione «senza mai fare cambiamenti»,
come dice sant’Ignazio. Tutte queste grazie si aggregano e si
sintetizzano nella grande opera di misericordia spirituale che è il
discernimento. Esso ci guarisce dalla malattia più triste e degna di
compassione: la cecità spirituale, che ci impedisce di riconoscere il tempo
di Dio, il tempo della sua visita. […]
Cfr «Esercizi spirituali», n. 318.
A
chi dà gli Esercizi e deve guidare un altro, Ignazio consiglia che «non
si avvicini né propenda all’una o all’altra parte, ma resti in equilibrio
come il peso sul braccio di una stadera, e lasci che il Creatore agisca
direttamente con la creatura, e la creatura con il suo Creatore e Signore»
(ES 15). Sebbene al di fuori degli Esercizi «muovere l’altro»
sia lecito, Fiorito privilegiava
l’atteggiamento di non propendere per una parte o per l’altra, affinché «sia
lo stesso Creatore e Signore a comunicarsi alla persona, abbracciandola nel
suo amore e alla sua lode, e disponendola alla via nella quale potrà meglio
servirlo in futuro». Grazie a questo «mantenersi fuori» era di
riferimento per tutti senza la minima ombra di parzialità. E di certo, al
momento opportuno, quando chi stava facendo Esercizi con lui ne aveva
bisogno – fosse perché era bloccato da qualche tentazione o perché al
contrario si trovava in una buona disposizione per fare la sua «elezione» –
il Maestro interveniva con forza e decisione per dire la sua e poi, di nuovo,
«si teneva fuori», lasciando che Dio operasse in chi svolgeva gli Esercizi.
[…]
Una
seconda caratteristica: non esortava. Ti ascoltava in silenzio e poi, invece
di parlare, ti dava un «foglietto» che prendeva dalla sua biblioteca. La
biblioteca di Fiorito aveva questa particolarità: oltre alla parte consueta,
per così dire, con scaffali e libri, ne aveva un’altra che occupava tutta una
parete di quasi sei metri per quattro in altezza, formata di cassettini in
ciascuno dei quali classificava e metteva i suoi «foglietti», schede di
studio, preghiera e azione, ciascuna dedicata a un solo tema degli
Esercizi o delle Costituzioni della Compagnia, per esempio. Lui si alzava
a cercarle, a volte montando pericolosamente su una scala, per darle senza
tante parole a chi faceva gli Esercizi in risposta a qualche
inquietudine che quest’ultimo gli aveva manifestato o su cui lui
stesso aveva fatto discernimento mentre lo ascoltava parlare delle sue cose.
[…]
Una
terza caratteristica che ricordo è che il Maestro Fiorito non era geloso. Non
era un uomo geloso: scriveva e firmava con altri, pubblicava ed evidenziava
il pensiero di altri, limitando molto spesso il suo a semplici note, che in
realtà, come ora si può vedere meglio grazie a questa edizione dei suoi Escritos, erano di somma importanza, perché facevano vedere
l’essenziale e l’attualità del pensiero altrui. L’esempio più compiuto della
fecondità di questo modo di lavorare intellettualmente in Scuola è, a mio
giudizio, l’edizione annotata e commentata delle Memorie spirituali di Pierre Favre che
Fiorito curò insieme a Jaime Amadeo. Un vero e proprio classico. Senza tratti
di ideologia né di quell’erudizione che è soltanto per eruditi, è un’opera che
ci mette in contatto con l’anima di Favre, con la sua limpidezza e dolcezza,
con la sua capacità dialogica verso tutti, frutto della sua discrezione
spirituale, e con la sua maestria nel dare gli Esercizi. Il Maestro
condivideva molta della sensibilità di Favre, in tensione polare con una
mente in effetti piuttosto fredda e oggettiva, da ingegnere qual era. […]
Qui
voglio sottolineare che Fiorito aveva una particolare naso per «sentire» il
cattivo spirito; sapeva riconoscerne l’azione, distinguerne i tic,
smascherarlo dai frutti cattivi, dal retrogusto amaro e dalla scia di
desolazione che si lascia dietro. In questo senso, si può dire che è stato un
uomo in armi contro un solo nemico: lo spirito cattivo, Satana, il demonio,
il tentatore, l’accusatore, il nemico della nostra natura umana. Tra la
bandiera di Cristo e quella di Satana, ha fatto la sua scelta personale
per nostro Signore. In tutto il resto ha cercato di discernere il «tanto…
quanto» e con ogni persona è stato un padre amabile, un maestro paziente
e – quando è capitato – un avversario fermo, ma sempre rispettoso e leale.
Mai un nemico. […]
Cfr «Esercizi spirituali», nn. 136, 23.
Come
Provinciale, ho dovuto ricevere il racconto di coscienza annuale del Padre
Fiorito. Era un novizio. Un novizio maturo. Era il discepolo del padre che
era a sua volta il proprio discepolo.
Non riesco a capirlo, ma era la testimonianza della sua grandezza di anima.
Come gesuita, al Maestro Miguel Ángel Fiorito si
attaglia l’immagine del Salmo 1, quella dell’albero piantato lungo corsi
d’acqua, che dà fiori e frutto a suo tempo. Come quest’albero della
Scrittura, Fiorito ha saputo lasciarsi contenere nel minimo spazio del suo
ruolo al Collegio Massimo di san Giuseppe, a San Miguel, in Argentina, e là
ha messo radici e ha dato fiori e frutto, come ben esprime il suo nome –
Fiorito -, nei cuori di noi discepoli della Scuola degli Esercizi.
Spero che adesso, grazie a questa magnifica edizione dei suoi Escritos, che hanno l’altezza di un grande sogno, metterà radici e darà
fiori e frutti nella vita di tante persone che si nutrono della stessa grazia
che lui ha ricevuto e ha saputo comunicare discretamente dando e commentando
gli Esercizi spirituali.
ANGELUS
1 marzo 2020
Vi chiedo anche un ricordo nella preghiera
per gli Esercizi spirituali della Curia Romana, che questa sera
inizieranno ad Ariccia. Purtroppo, il raffreddore mi costringe a non
partecipare, quest’anno: seguirò da qui le meditazioni. Mi unisco
spiritualmente alla Curia e a tutte le persone che stanno vivendo momenti
di preghiera, facendo gli Esercizi spirituali a casa.
REGINA CAELI
3 maggio 2020
Cari
fratelli e sorelle, buongiorno!
La
quarta domenica di Pasqua, che celebriamo oggi, è dedicata a Gesù buon
Pastore. Il Vangelo dice: «Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le
sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3). Il Signore ci chiama per nome, ci
chiama perché ci ama. Però, dice ancora il Vangelo, ci sono altre voci, da
non seguire: quelle di estranei, ladri e briganti che vogliono il male delle
pecore.
Queste
diverse voci risuonano dentro di noi. C’è la voce di Dio, che gentilmente
parla alla coscienza, e c’è la voce tentatrice che induce al male. Come
fare a riconoscere la voce del buon Pastore da quella del ladro, come fare a
distinguere l’ispirazione di Dio dalla suggestione del maligno? Si può
imparare a discernere queste due voci: esse infatti parlano due lingue
diverse, hanno cioè modi opposti per bussare al nostro cuore. Parlano lingue
diverse. Come noi sappiamo distinguere una lingua dall’altra, possiamo anche
distinguere la voce di Dio e la voce del maligno. La voce di Dio non obbliga
mai: Dio si propone, non si impone. Invece la voce cattiva seduce, assale,
costringe: suscita illusioni abbaglianti, emozioni allettanti, ma passeggere.
All’inizio blandisce, ci fa credere che siamo onnipotenti, ma poi ci lascia
col vuoto dentro e ci accusa: “Tu non vali niente”. La voce di Dio, invece,
ci corregge, con tanta pazienza, ma sempre ci incoraggia, ci consola: sempre
alimenta la speranza. La voce di Dio è una voce che ha un orizzonte, invece
la voce del cattivo ti porta a un muro, ti porta all’angolo.
Un’altra
differenza. La voce del nemico distoglie dal presente e vuole che ci
concentriamo sui timori del futuro o sulle tristezze del passato – il nemico
non vuole il presente –: fa riaffiorare le amarezze, i ricordi dei torti
subiti, di chi ci ha fatto del male…, tanti ricordi brutti. Invece la voce di
Dio parla al presente: “Ora puoi fare del bene, ora puoi esercitare la
creatività dell’amore, ora puoi rinunciare ai rimpianti e ai rimorsi che
tengono prigioniero il tuo cuore”. Ci anima, ci porta avanti, ma parla al
presente: ora.
Ancora:
le due voci suscitano in noi domande diverse. Quella che viene da Dio sarà:
“Che cosa mi fa bene?”. Invece il tentatore insisterà su un’altra domanda:
“Che cosa mi va di fare?”. Che cosa mi va: la voce cattiva ruota sempre
attorno all’io, alle sue pulsioni, ai suoi bisogni, al tutto e subito. È come
i capricci dei bambini: tutto e adesso. La voce di Dio, invece, non promette
mai la gioia a basso prezzo: ci invita ad andare oltre il nostro io per
trovare il vero bene, la pace. Ricordiamoci: il male non dona mai pace, mette
frenesia prima e lascia amarezza dopo. Questo è lo stile del male.
La voce di Dio e quella del tentatore,
infine, parlano in “ambienti” diversi: il nemico predilige l’oscurità, la
falsità, il pettegolezzo; il Signore ama la luce del sole, la verità, la
trasparenza sincera. Il nemico ci dirà: “Chiuditi in te stesso, tanto nessuno
ti capisce e ti ascolta, non fidarti!”. Il bene, al contrario, invita ad
aprirsi, a essere limpidi e fiduciosi in Dio e negli altri.
Cari fratelli e sorelle, in questo tempo
tanti pensieri e preoccupazioni ci portano a rientrare in noi stessi.
Prestiamo attenzione alle voci che giungono al nostro cuore. Chiediamoci da
dove arrivano. Chiediamo la grazia di riconoscere e seguire la voce del
buon Pastore, che ci fa uscire dai recinti dell’egoismo e ci conduce ai
pascoli della vera libertà. La Madonna, Madre del buon Consiglio, orienti e
accompagni il nostro discernimento.
UDIENZA GENERALE
4 novembre 2020
In
secondo luogo, la preghiera è un’arte da praticare con insistenza.
Gesù stesso ci dice: bussate, bussate, bussate. Tutti siamo capaci di
preghiere episodiche, che nascono dall’emozione di un momento; ma Gesù ci educa
a un altro tipo di preghiera: quella che conosce una disciplina, un
esercizio, e viene assunta entro una regola di vita. Una preghiera
perseverante produce una trasformazione progressiva, rende forti nei periodi
di tribolazione, dona la grazia di essere sostenuti da Colui che ci ama e ci
protegge sempre.
OMELIA SANTA MESSA DEL CRISMA
1 aprile 2021
La
vicinanza di Gesù che va a mangiare con i peccatori guadagna cuori come
quello di Zaccheo, quello di Matteo, quello della Samaritana…, ma provoca
anche sentimenti di disprezzo in coloro che si credono giusti.
La
magnanimità di quell’uomo che manda il suo figlio pensando che sarà
rispettato dai vignaioli, scatena tuttavia in essi una ferocia fuori da ogni
misura: siamo di fronte al mistero dell’iniquità, che porta a uccidere il
Giusto (cfr Mt 21,33-46).
Tutto
questo, cari fratelli sacerdoti, ci fa vedere che l’annuncio della Buona
Notizia è legato misteriosamente alla persecuzione e alla Croce.
Sant’Ignazio
di Loyola, nella contemplazione della
Natività – scusatemi questa pubblicità di famiglia -, in quella
contemplazione della Natività esprime questa verità evangelica quando ci fa
osservare e considerare quello che fanno San Giuseppe e la Madonna: «Per
esempio, camminano e si danno da fare perché il Signore nasca in un’estrema
povertà e, dopo aver tanto sofferto fame e sete, caldo e freddo, ingiurie e
oltraggi, muoia in croce. E tutto questo per me. Poi – aggiunge Ignazio –,
riflettendo, ricavare qualche frutto spirituale» (Esercizi spirituali, 116). La gioia della nascita del Signore, il
dolore della Croce, la persecuzione.
Che
riflessione possiamo fare per trarre profitto per la nostra vita sacerdotale
contemplando questa precoce presenza della Croce – dell’incomprensione, del
rifiuto, della persecuzione – all’inizio e nel cuore stesso della
predicazione evangelica?
Mi
vengono in mente due riflessioni.
La
prima: non meraviglia constatare che la Croce è presente nella vita del
Signore all’inizio del suo ministero e perfino prima della sua nascita. È presente
già nel primo turbamento di Maria davanti all’annuncio dell’Angelo; è
presente nell’insonnia di Giuseppe al sentirsi obbligato ad abbandonare la
sua promessa sposa; è presente nella persecuzione di Erode e nei disagi che
patisce la Santa Famiglia, uguali a quelle di tante famiglie che devono
andare in esilio dalla propria patria.
Questa
realtà ci apre al mistero della Croce vissuta “da prima”. Ci fa comprendere
che la Croce non è un fatto a posteriori, un fatto occasionale, prodotto da
una congiuntura nella vita del Signore. È vero che tutti i crocifissori della
storia fanno apparire la Croce come se fosse un danno collaterale, ma non è
così: la Croce non dipende dalle circostanze. Le grandi croci dell’umanità e
le piccole – diciamo così – croci nostre, di ognuno di noi non dipendono
dalle circostanze.
Perché
il Signore ha abbracciato la Croce in tutta la sua integrità? Perché Gesù ha
abbracciato la passione intera? Ha abbracciato il tradimento e l’abbandono dei
suoi amici già dall’ultima cena, ha accettato la detenzione illegale, il
giudizio sommario, la sentenza sproporzionata, la cattiveria senza motivo
degli schiaffi e degli sputi gratuiti… Se le circostanze determinassero il
potere salvifico della Croce, il Signore non avrebbe abbracciato tutto. Ma
quando è stata la sua ora, Egli ha abbracciato la Croce intera. Perché nella
Croce non c’è ambiguità! La Croce non si negozia.
La
seconda riflessione è la seguente. È vero che c’è qualcosa della Croce che è
parte integrante della nostra condizione umana, del limite e della fragilità.
Però è anche vero che c’è qualcosa di ciò che accade nella Croce che non è
inerente alla nostra fragilità, bensì è il morso del serpente, il quale,
vedendo il crocifisso inerme, lo morde e tenta di avvelenare e screditare
tutta la sua opera. Morso che cerca di scandalizzare - questa è un’epoca
degli scandali-, morso che cerca di immobilizzare e rendere sterile e
insignificante ogni servizio e sacrificio d’amore per gli altri. È il veleno
del maligno che continua a insistere: salva te stesso.
E
in questo morso, crudele e doloroso, che pretende di essere mortale, appare
alla fine il trionfo di Dio. San Massimo il Confessore ci ha fatto vedere che
con Gesù crocifisso le cose si sono invertite: mordendo la carne del Signore,
il demonio non lo ha avvelenato – in Lui ha trovato solo mansuetudine
infinita e obbedienza alla volontà del Padre – ma, al contrario, unita
all’amo della Croce ha inghiottito la Carne del Signore, che è stata veleno per
lui ed è diventata per noi l’antidoto che neutralizza il potere del maligno.
Queste
sono le riflessioni. Chiediamo al Signore la grazia di trarre profitto da
questi insegnamenti: c’è Croce nell’annuncio del Vangelo, è vero, ma è una
Croce che salva. Pacificata con il Sangue di Gesù, è una Croce con la forza
della vittoria di Cristo che sconfigge il male, che ci libera dal Maligno.
Abbracciarla con Gesù e come Lui, già “da prima” di andare a predicare, ci
permette di discernere e respingere il veleno dello scandalo con cui il
demonio cercherà di avvelenarci quando inaspettatamente sopraggiungerà una
croce nella nostra vita.
«Noi
però non siamo di quelli che cedono (hypostoles)» (Eb 10,39) dice
l’autore della Lettera agli Ebrei. «Noi però non siamo di quelli che cedono»,
è il consiglio che ci dà: noi non ci scandalizziamo, perché non si è
scandalizzato Gesù vedendo che il suo lieto annuncio di salvezza ai poveri
non risuonava puro, ma in mezzo alle urla e alle minacce di quelli che non
volevano udire la sua Parola o volevano ridurla a legalismi (moralisti, clericalisti...).
Noi
non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù dovendo guarire
malati e liberare prigionieri in mezzo alle discussioni e alle controversie
moralistiche, legalistiche, clericali che suscitava ogni volta che faceva il
bene.
Noi
non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù dovendo dare la
vista ai ciechi in mezzo a gente che chiudeva gli occhi per non vedere o
guardava dall’altra parte.
Noi
non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù del fatto che la sua
predicazione dell’anno di grazia del Signore – un anno che è la storia intera
– abbia provocato uno scandalo pubblico in ciò che oggi occuperebbe appena la
terza pagina di un giornale di provincia.
E
non ci scandalizziamo perché l’annuncio del Vangelo non riceve la sua
efficacia dalle nostre parole eloquenti, ma dalla forza della Croce (cfr 1 Cor 1,17).
Dal
modo in cui abbracciamo la Croce annunciando il Vangelo – con le opere e, se
necessario, con le parole – si manifestano due cose: che le sofferenze
procurateci dal Vangelo non sono nostre, ma «le sofferenze di Cristo in noi»
(2 Cor 1,5) e che «non annunciamo noi stessi, ma
Cristo Gesù Signore» e noi siamo «servitori a causa di Gesù» (2 Cor 4,5).
Desidero
concludere con un ricordo. Una volta, in un momento molto buio della mia
vita, chiedevo una grazia al Signore, che mi liberasse da una situazione dura
e difficile. Un momento buio. Sono andato a predicare gli Esercizi spirituali ad alcune
religiose e l’ultimo giorno, com’era abituale in quel tempo, si sono
confessate. È venuta una suora molto anziana, con gli occhi chiari, proprio
luminosi. Era una donna di Dio. Allora ho sentito il desiderio di chiederle
per me e le ho detto: “Suora, come penitenza preghi per me, perché ho bisogno
di una grazia. La chieda al Signore. E se Lei la chiede al Signore, me la
darà di sicuro”. Lei ha fatto silenzio, ha aspettato un bel po’, come se
pregasse, e poi mi ha guardato e mi ha detto: “Certamente il Signore Le darà
la grazia, ma non si sbagli: la darà con il suo modo divino”. Questo mi ha
fatto tanto bene: sentire che il Signore ci dà sempre quello che chiediamo,
ma lo fa nel suo modo divino. Questo modo implica la croce. Non per
masochismo, ma per amore, per amore sino alla fine.
UDIENZA GENERALE
12 maggio 2021
Tutti
gli uomini e le donne di Dio riferiscono non solamente la gioia della
preghiera, ma anche il fastidio e la fatica che essa può procurare: in
qualche momento è una dura lotta tenere fede ai tempi e ai modi della
preghiera. Qualche santo l’ha portata avanti per anni senza provarne alcun
gusto, senza percepirne l’utilità. Il silenzio, la preghiera, la
concentrazione sono esercizi
difficili, e qualche volta la natura umana si ribella. Preferiremmo stare in
qualsiasi altra parte del mondo, ma non lì, su quella panca della chiesa a
pregare. Chi vuole pregare deve ricordarsi che la fede non è facile, e
qualche volta procede in un’oscurità quasi totale, senza punti di
riferimento. Ci sono momenti della vita di fede che sono oscuri e per questo
qualche Santo li chiama: “La notte oscura”, perché non si sente nulla. Ma io
continuo a pregare.
I
nemici peggiori della preghiera sono però dentro di noi. Il Catechismo li chiama così:
«Scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al
Signore, poiché abbiamo “molti beni”, delusione per non essere esauditi
secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla
nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera» (n.
2728). Si tratta chiaramente di un elenco sommario, che potrebbe essere
allungato.
Cosa
fare nel tempo della tentazione, quando tutto sembra vacillare? Se
perlustriamo la storia della spiritualità, notiamo subito come i maestri dell’anima
avessero ben chiara la situazione che abbiamo descritto. Per superarla,
ognuno di essi ha offerto qualche contributo: una parola di sapienza, oppure
un suggerimento per affrontare i tempi irti di difficoltà. Non si tratta di
teorie elaborate a tavolino, no, quanto di consigli nati dall’esperienza, che
mostrano l’importanza di resistere e di perseverare nella preghiera.
Sarebbe
interessante passare in rassegna almeno alcuni di questi consigli, perché
ciascuno merita di essere approfondito. Ad esempio, gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola sono un libretto di
grande sapienza, che insegna a mettere ordine nella propria vita. Fa capire
che la vocazione cristiana è militanza, è decisione di stare sotto la bandiera
di Gesù Cristo e non sotto quella del diavolo, cercando di fare il bene anche
quando ciò diventa difficile.
Nei
tempi di prova è bene ricordarsi che non siamo soli, che qualcuno veglia al
nostro fianco e ci protegge. Anche Sant’Antonio abate, il fondatore del
monachesimo cristiano, in Egitto, affrontò momenti terribili, in cui la
preghiera si trasformava in dura lotta. Il suo biografo Sant’Atanasio,
Vescovo di Alessandria, narra che uno degli episodi peggiori capitò al Santo
eremita intorno ai trentacinque anni, età di mezzo che per molti comporta una
crisi. Antonio fu turbato da quella prova, ma resistette. Quando finalmente
tornò il sereno, si rivolse al suo Signore con un tono quasi di rimprovero:
«Dov’eri? Perché non sei venuto subito a porre fine alle mie sofferenze?». E
Gesù rispose: «Antonio, io ero là. Ma aspettavo di vederti combattere» (Vita
di Antonio, 10). Combattere nella preghiera. E tante volte la preghiera è un
combattimento. Mi viene alla memoria una cosa che ho vissuto da vicino, quando
ero nell’altra diocesi. C’era una coppia che aveva una figlia di nove anni,
con una malattia che i medici non sapevano cosa fosse. E alla fine, in
ospedale, il medico disse alla mamma: “Signora, chiami suo marito”. E il
marito era a lavoro; erano operai, lavoravano tutti i giorni. E disse al
padre: “La bambina non passa la notte. È un’infezione, non possiamo fare
nulla”. Quell’uomo, forse non andava tutte le domeniche a Messa, ma aveva una
fede grande. Uscì piangendo, lasciò la moglie lì con la bambina
nell’ospedale, prese il treno e fece i settanta chilometri di distanza verso
la Basilica della Madonna di Luján, la Patrona
dell’Argentina. E lì - la basilica era già chiusa, erano quasi le dieci di
notte, di sera – lui si aggrappò alle grate della Basilica e tutta la notte
pregando la Madonna, combattendo per la salute della figlia. Questa non è una
fantasia; l’ho visto io! L’ho vissuto io. Combattendo quell’uomo lì. Alla
fine, alle sei del mattino, si aprì la chiesa e lui entrò a salutare la
Madonna: tutta la notte a “combattere”, e poi tornò a casa. Quando arrivò,
cercò la moglie, ma non la trovò e pensò: “Se ne è andata. No, la Madonna non
può farmi questo”. Poi la trovò, sorridente che diceva: “Ma non so cosa è
successo; i medici dicono che è cambiato così e che adesso è guarita”.
Quell’uomo lottando con la preghiera ha avuto la grazia della Madonna. La
Madonna lo ha ascoltato. E questo l’ho visto io: la preghiera fa dei
miracoli, perché la preghiera va proprio al centro della tenerezza di Dio che
ci ama come un padre. E quando non ci fa la grazia, ce ne farà un’altra che
poi vedremo con il tempo. Ma sempre occorre il combattimento nella preghiera
per chiedere la grazia. Sì, delle volte noi chiediamo una grazia di cui
abbiamo bisogno, ma la chiediamo così, senza voglia, senza combattere, ma non
si chiedono così le cose serie. La preghiera è un combattimento e il Signore
sempre è con noi.
Se
in un momento di cecità non riusciamo a scorgere la sua presenza, ci
riusciremo in futuro. Capiterà anche a noi di ripetere la stessa frase che
disse un giorno il patriarca Giacobbe: «Certo, il Signore è in questo luogo e
io non lo sapevo» (Gen 28,16). Alla fine della nostra vita, volgendo
all’indietro lo sguardo, anche noi potremo dire: “Pensavo di essere solo, ma no,
non lo ero: Gesù era con me”. Tutti potremo dire questo.
SALUTO ALLA DELEGAZIONE DELLA
FEDERAZIONE ITALIANA PALLACANESTRO
31 maggio 2021
Un
secondo aspetto, un’attitudine dello sportivo è la disciplina. Tanti giovani
e adulti che sono appassionati allo sport e vi seguono tifando per voi, a
volte non riescono a immaginare quanto lavoro e quanto allenamento ci sia
dietro una gara. E questo richiede tanta disciplina non solo fisica, ma anche
interiore: l’esercizio fisico, la costanza, l’attenzione a una vita ordinata
negli orari e nell’alimentazione, il riposo alternato alla fatica
dell’allenamento. Questa disciplina è una scuola di formazione e di
educazione, specialmente per i ragazzi e per i giovani. Li aiuta a capire
quanto è importante – e scusate se cito Sant’Ignazio di Loyola – imparare a “mettere ordine nella propria vita”.
Questa disciplina non ha lo scopo di farci diventare rigidi, ma di renderci
responsabili: di noi stessi, delle cose che ci sono affidate, degli altri,
della vita in generale. Aiuta anche la vita spirituale, che non può essere
lasciata alle sole emozioni né può essere vissuta a fasi alterne, “solo
quando mi va”. Anche la vita spirituale ha bisogno di una disciplina
interiore fatta di fedeltà, costanza, impegno quotidiano nella preghiera.
Senza allenamento interiore costante, la fede rischia di spegnersi.
CONVERSAZIONE CON I GESUITI
SLOVACCHI
12 settembre 2021
Un gesuita chiede come vede
la Compagnia oggi. Parla di una certa mancanza di fervore, di una volontà di
cercare sicurezze più che di andare negli incroci, come chiedeva Paolo VI,
perché non è facile.
No,
facile certo non è. Ma quando si sente che manca il fervore, si deve fare un
discernimento per capire il perché. Ne devi parlare con i tuoi fratelli. La
preghiera aiuta a capire se e quando manca il fervore. Bisogna parlarne ai
fratelli, ai superiori e poi devi fare un discernimento per verificare se è
una desolazione solo tua o è una desolazione più comunitaria. Gli Esercizi ci danno la possibilità di
trovare risposte a domande come questa. Io sono convinto che noi non
conosciamo bene gli Esercizi. Le
annotazioni e le regole del discernimento sono un vero tesoro. Dobbiamo
conoscerle meglio.
Cfr. Esercizi Spirituali, 1-20; 313-336
ANGELUS
14 novembre 2021
E noi,
fratelli e sorelle, domandiamoci: in che cosa stiamo investendo la vita? Su
cose che passano, come il denaro, il successo, l’apparenza, il benessere
fisico? Di queste cose, noi non porteremo nulla. Siamo attaccati alle cose
terrene, come se dovessimo vivere qui per sempre? Mentre siamo giovani, in
salute, va bene tutto, ma quando arriva l’ora del congedo dobbiamo lasciare
tutto. La Parola di Dio oggi ci avverte: passa la scena di questo mondo. E
rimarrà soltanto l’amore. Fondare la vita sulla Parola di Dio, dunque, non è
evadere dalla storia, è immergersi nelle realtà terrene per renderle salde,
per trasformarle con l’amore, imprimendovi il segno dell’eternità, il segno
di Dio. Ecco allora un consiglio per prendere le scelte importanti. Quando io
non so cosa fare, come prendere una scelta definitiva, una scelta importante,
una scelta che comporta l’amore di Gesù, cosa devo fare? Prima di decidere,
immaginiamo di stare davanti a Gesù, come alla fine della vita, davanti a Lui
che è amore. E pensandoci lì, al suo cospetto, alla soglia dell’eternità,
prendiamo la decisione per l’oggi. Così dobbiamo decidere: sempre guardando
l’eternità, guardando Gesù. Non sarà forse la più facile, non sarà forse la
più immediata, ma sarà quella buona, quello è sicuro (cfr
S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 187).
COLLOQUIO CON I GESUITI DELLA GRECIA
4 dicembre 2021
Si presenta il p. Freris. […] Dice al Papa che una volta la comunità era
numerosa e molto attiva, dando molto al Paese. Molte loro opere erano di
carattere culturale e intellettuale, di apertura al dialogo. Una di queste
attività era la pubblicazione di una rivista. Ora la situazione è di
debolezza. I gesuiti fanno quello che possono con le poche forze a
disposizione. Il Papa interviene commentando:
Una
cosa che richiama l’attenzione è il debilitarsi della Compagnia. Quando sono
entrato in noviziato, eravamo 33.000 gesuiti. Ora quanti siamo? Più o meno la
metà. E continueremo a diminuire di numero. Questo dato è comune a tanti
Ordini e Congregazioni religiose. Ha un significato, e noi dobbiamo chiederci
quale sia. In definitiva, questa diminuzione non dipende da noi. La vocazione
la manda il Signore. Se non viene, non dipende da noi. Credo che il Signore
ci stia dando un insegnamento per la vita religiosa. Per noi ha un
significato nel senso dell’umiliazione. Negli Esercizi Spirituali Ignazio punta sempre a questo:
all’umiliazione. Sulla crisi vocazionale il gesuita non può rimanere al
livello della spiegazione sociologica. Questa è, al limite, la metà del vero.
La verità più profonda è che il Signore ci porta a questa umiliazione dei
numeri per aprire a ciascuno la via al «terzo grado di umiltà», che è l’unica
fecondità gesuitica che vale. Il terzo grado di umiltà è l’obiettivo degli Esercizi. La grande rivista
scientifica oggi non esiste più: che vuol dire il Signore con questo?
Umiliati, umiliati! Non so se mi sono spiegato. Dobbiamo abituarci
all’umiliazione.
Cfr. Esercizi Spirituali, 167.
DISCORSO AI MEMBRI DEL COLLEGIO
CARDINALIZIO E DELLA CURIA ROMANA
23 dicembre 2021
Ma
se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che
la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci
parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna
che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando
l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente
la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per
questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta
d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel
passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può
andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere
le umiliazioni.
ANGELUS
6 marzo 2022
Oggi
pomeriggio, insieme con i collaboratori della Curia Romana, inizieremo gli Esercizi spirituali. Portiamo nella nostra preghiera tutte le necessità
della Chiesa e della famiglia umana. E anche voi, per favore, pregate per
noi.
PRAEDICATE EVANGELIUM
19 marzo 2022
Prefettura della Casa
Pontificia
Art.
229 §3. Si occupa di quanto si riferisce agli Esercizi spirituali del Romano Pontefice, del Collegio
Cardinalizio e della Curia Romana.
CONVERSAZIONE CON I DIRETTORI DELLE
RIVISTE CULTURALI EUROPEE DEI GESUITI
19 maggio 2022
Quali segni di rinnovamento
spirituale vede nella Chiesa? Ne vede? Ci sono segni di vita nuova, fresca?
È
molto difficile vedere un rinnovamento spirituale usando schemi molto
antiquati. Bisogna rinnovare il nostro modo di vedere la realtà, di
valutarla. Nella Chiesa europea vedo più rinnovamento nelle cose spontanee
che stanno nascendo: movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è
un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano
meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo.
Il
restaurazionismo è arrivato a imbavagliare il
Concilio. Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati
Uniti ce ne sono tanti – è impressionante. Un vescovo argentino mi raccontava
che gli era stato chiesto di amministrare una diocesi che era caduta nelle
mani di questi «restauratori». Non avevano mai accettato il Concilio. Ci sono
idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo
che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che
in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che
ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni
per farlo attecchire, dunque!
Segni
di rinnovamento sono anche i gruppi che attraverso l’assistenza sociale o
pastorale danno un nuovo volto alla Chiesa. I francesi sono molto creativi in
questo.
Voi
non eravate ancora nati, ma io sono stato testimone nel 1974 del calvario del
Preposito generale p. Pedro Arrupe nella Congregazione Generale XXXII. A quel
tempo c’è stata una reazione conservatrice per bloccare la voce profetica di
Arrupe! Oggi per noi quel Generale è un santo, ma ha dovuto subire molti attacchi.
È stato coraggioso, perché ha osato fare il passo. Arrupe era un uomo di
grande obbedienza al Papa. Una grande obbedienza. E Paolo VI lo capì. Il
miglior discorso mai scritto da un Papa alla Compagnia di Gesù è quello che
Paolo VI fece il 3 dicembre 1974. E l’ha scritto a mano. Ci sono gli
originali. Il profeta Paolo VI ebbe la libertà di scriverlo. D’altra parte,
persone legate alla Curia alimentavano in qualche modo un gruppo di gesuiti
spagnoli che si consideravano i veri «ortodossi» e si contrapponevano ad
Arrupe. Paolo VI non è mai entrato in questo gioco. Arrupe aveva la capacità
di vedere la volontà di Dio, unita a una semplicità infantile nell’aderire al
Papa. Ricordo che un giorno, mentre prendevamo il caffè in un piccolo gruppo,
lui passò e disse: «Andiamo, andiamo! Il Papa sta per passare, salutiamolo!».
Era come un ragazzo! Con quell’amore spontaneo!
Un
gesuita della Provincia di Loyola si era particolarmente accanito contro p.
Arrupe, ricordiamolo. Fu inviato in vari luoghi e persino in Argentina, e
sempre combinò guai. Una volta mi disse: «Tu sei uno che non capisce niente.
Ma i veri colpevoli sono p. Arrupe e p. Calvez. Il
giorno più felice della mia vita sarà quando li vedrò appesi alla forca in
Piazza San Pietro». Perché vi racconto questa storia? Per farvi capire
com’era il periodo post-conciliare. E questo sta accadendo di nuovo,
soprattutto con i tradizionalisti. Per questo è importante salvare queste
figure che hanno difeso il Concilio e la fedeltà al Papa. Dobbiamo tornare ad
Arrupe: è una luce di quel momento che illumina tutti noi. E fu lui a
riscoprire gli Esercizi spirituali come fonte, liberandosi
dalle rigide formulazioni dell’Epitome Instituti,
espressione di un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che
mistico.
Epitome Instituti: una specie di
riassunto pratico in uso nella Compagnia e formulato nel XX secolo, che venne
visto come un sostitutivo delle Costituzioni.
La formazione dei gesuiti per un certo tempo fu plasmata da questo testo, a
tal punto che qualcuno non lesse mai le Costituzioni.
VOLO PAPALE
29 luglio 2022
Quello
che il Signore dica. Il Signore può dire: “Dimettiti”. È il Signore che
comanda. Una cosa su Sant’Ignazio, questo è importante: quando uno era
stanco, malato, diceva a Sant’Ignazio: “Io non posso fare la preghiera”, e
lui dispensava dalla preghiera. Ma mai dispensava dall’esame di coscienza:
due volte al giorno guardare cosa è successo… Non è questione di peccati o
non peccati, no: “Quale spirito mi ha mosso oggi?”. La nostra vocazione diceva:
cercare cosa è successo oggi. Se io – questa è un’ipotesi – vedo che il
Signore mi dice qualcosa, un’ispirazione di quello o dell’altro, devo fare un
discernimento per vedere cosa chiede il Signore. E può darsi che il Signore
mi vuole mandare all’angolo, è cosa sua, è Lui che comanda. Questo credo che
è il modo religioso di vivere di un gesuita: stare nel discernimento
spirituale per prendere delle decisioni, per scegliere vie di lavoro e anche
scegliere gli impegni. Il discernimento è chiave nella vocazione del gesuita.
Questo è importante. Sant’Ignazio in questo era molto fermo, perché è stata
la sua propria esperienza del discernimento spirituale che lo ha portato alla
conversione. E gli esercizi [Esercizi, NdR] spirituali
sono davvero una scuola di discernimento. Così, il gesuita dev’essere per
vocazione un uomo di discernimento, discernere le situazioni, discernere la
propria coscienza, discernere le decisioni da prendere. E per questo
dev’essere aperto a qualsiasi cosa che il Signore gli chieda. Questa è un po’
la nostra spiritualità.
CATECHESI SUL DISCERNIMENTO:
2. UN ESEMPIO: IGNAZIO DI LOYOLA
7 settembre 2022
Ecco
allora l’altro aspetto: il punto di arrivo dei pensieri. All’inizio la situazione
non sembra così chiara. C’è uno sviluppo del discernimento: per esempio
capiamo cosa sia il bene per noi non in modo astratto, generale, ma nel
percorso della nostra vita. Nelle regole per il discernimento, frutto di
questa esperienza fondamentale, Ignazio pone una premessa importante, che
aiuta a comprendere tale processo: «A coloro che passano da un peccato
mortale all’altro, il demonio comunemente è solito proporre piaceri
apparenti, tranquillizzarli che tutto va bene, facendo loro immaginare diletti
e piaceri sensuali, per meglio mantenerli e farli crescere nei loro vizi e
peccati. Con questi, lo spirito buono usa il metodo opposto, stimolando al
rimorso la loro coscienza con il giudizio della ragione» (Esercizi Spirituali, 314).
LETTERA ALL’EM.MO CARD. OMELLA IN
OCCASIONE
DEL V CENTENARIO DELLA CONVERSIONE DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA
12 settembre 2022
In
quella circostanza, Ignazio si dimostrò docile a questa chiamata, ma la cosa
più importante è che non trattenne quella grazia per sé, ma la considerò fin
dall’inizio come un dono per gli altri, come un cammino, un metodo che poteva
aiutare altre persone a incontrare Dio, ad aprire il proprio cuore e a
lasciarsi interpellare da Lui. Da allora i suoi esercizi [Esercizi, NdR] spirituali, come altri cammini di perfezione,
quali i dodici gradi di umiltà di san Benedetto, las moradas [il castello interiore] di
santa Teresa, o più semplicemente ciò che ci propongono le beatitudini o i
doni dello Spirito Santo, si presentano a noi come quella scala di Giacobbe
che dalla terra ci porta al cielo, e che Gesù promette a quanti lo cercano
sinceramente.
CATECHESI SUL
DISCERNIMENTO: 3. GLI ELEMENTI DEL DISCERNIMENTO.
LA FAMILIARITÀ CON IL SIGNORE
28 settembre 2022
Chiediamo
questa grazia: di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come un
amico parla all’amico (cfr. S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 54). Io ho conosciuto un vecchio fratello
religioso che era il portiere di un collegio e lui ogni volta che poteva si
avvicinava alla cappella, guardava l’altare, diceva: “Ciao”, perché aveva
vicinanza con Gesù. Lui non aveva bisogno di dire bla bla bla, no: “ciao, ti
sono vicino e tu mi sei vicino”. Questo è il rapporto che dobbiamo avere
nella preghiera: vicinanza, vicinanza affettiva, come fratelli, vicinanza con
Gesù. Un sorriso, un semplice gesto e non recitare parole che non arrivano al
cuore. Come dicevo, parlare con Gesù come un amico parla all’altro amico. È
una grazia che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri: vedere Gesù come il
nostro amico, il nostro amico più grande, il nostro amico fedele, che non
ricatta, soprattutto che non ci abbandona mai, anche quando noi ci
allontaniamo da Lui. Lui rimane alla porta del cuore. “No, io con te non
voglio sapere nulla”, diciamo noi. E Lui rimane zitto, rimane lì a portata di
mano, a portata di cuore perché Lui sempre è fedele. Andiamo avanti con
questa preghiera, diciamo la preghiera del “ciao”, la preghiera di salutare
il Signore con il cuore, la preghiera dell’affetto, la preghiera della vicinanza,
con poche parole ma con gesti e con opere buone. Grazie.
Esercizi Spirituali, 54: «Propriamente parlando, il
colloquio si fa così come un amico parla a un altro o un servo al suo
padrone, ora chiedendo qualche grazia, ora incolpandosi di qualche malefatta,
ora comunicando le proprie cose e chiedendo consiglio su di esse».
DISCORSO A SEMINARISTI E SACERDOTI
CHE STUDIANO A Roma
24 ottobre 2022
Una
volta un mio professore di filosofia – era un grande padre spirituale, ha
pubblicato tanti libri anche sugli esercizi [Esercizi, NdR] e sono tradotti in italiano, padre Fiorito – un
giorno ha dato una conferenza sui comportamenti, i fondamenti filosofici, ma
è scivolato subito sulla spiritualità, e una delle sue domande io la farei a
tutti voi, seminaristi, teologi: voi giocate con i bambini? Sapete giocare
con i bambini? Questa domanda lui la faceva sempre ai genitori, diceva: “Tu,
papà, quando torni dal lavoro, o tu mamma, giochi con i tuoi figli?”. La
tenerezza si impara con i bambini e con i vecchi. E l’abitudine che c’è di
allontanare i vecchi perché disturbano, questo ci allontana da una delle
fonti di tenerezza. Lo stile di Dio, non dimenticarti, è sempre vicinanza,
compassione e tenerezza. E se tu sei vicino, con compassione e tenerezza, sei
sulla strada buona. La tenerezza non è “fare il buono”. A volte nel fare il
buono si può scivolare nel fare lo stupido. No. Tenerezza è questo che ho
detto.
CATECHESI SUL DISCERNIMENTO.
7. LA MATERIA DEL DISCERNIMENTO.
LA DESOLAZIONE
26 ottobre 2022
La
desolazione è stata così definita: «L’oscurità dell’anima, il turbamento
interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a
diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è
senza speranza, e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste, come
separata dal suo Creatore e Signore» (S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 317). Tutti noi ne abbiamo esperienza. Credo
che in un modo o nell’altro, abbiamo fatto esperienza di questo, della
desolazione. Il problema è come poterla leggere, perché anch’essa ha qualcosa
di importante da dirci, e se abbiamo fretta di liberarcene, rischiamo di
smarrirla. […]
Per
chi invece ha il desiderio di compiere il bene, la tristezza è un ostacolo
con il quale il tentatore vuole scoraggiarci. In tal caso, si deve
agire in maniera esattamente contraria a quanto suggerito, decisi a
continuare quanto ci si era proposto di fare (cfr. Esercizi spirituali,
318). Pensiamo al lavoro, allo studio, alla preghiera, a un impegno assunto:
se li lasciassimo appena avvertiamo noia o tristezza, non concluderemmo mai
nulla. È anche questa un’esperienza comune alla vita spirituale: la strada
verso il bene, ricorda il Vangelo, è stretta e in salita, richiede un
combattimento, un vincere sé stessi. Inizio a pregare, o mi dedico a un’opera
buona e, stranamente, proprio allora mi vengono in mente cose da fare con
urgenza – per non pregare e per non fare le cose buone. Tutti abbiamo questa
esperienza. È importante, per chi vuole servire il Signore, non lasciarsi
guidare dalla desolazione. E questo che … “Ma no, non ho voglia, questo è
noioso …”: stai attento. Purtroppo, alcuni decidono di abbandonare la vita di
preghiera, o la scelta intrapresa, il matrimonio o la vita religiosa, spinti
dalla desolazione, senza prima fermarsi a leggere questo stato d’animo, e
soprattutto senza l’aiuto di una guida. Una regola saggia dice di non fare
cambiamenti quando si è desolati. Sarà il tempo successivo, più che
l’umore del momento, a mostrare la bontà o meno delle nostre scelte.
Esercizi Spirituali, 318: «In tempo di desolazione non si
deve mai fare mutamento ma restare fermo e costante nei propositi e nella
determinazione in cui si stava nel giorno precedente a tale desolazione, o
nella determinazione in cui si stava nell’antecedente consolazione. Come
infatti nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, così
nella desolazione il cattivo, con i cui consigli non possiamo prendere la
giusta strada».
CATECHESI SUL
DISCERNIMENTO. 9. LA CONSOLAZIONE
23 novembre 2022
La
consolazione è un movimento intimo, che tocca il profondo di noi stessi. Non
è appariscente ma è soave, delicata, come una goccia d’acqua su una spugna
(cfr. S. Ignazio di L., Esercizi
spirituali, 335): la persona si sente avvolta dalla presenza di Dio, in
una maniera sempre rispettosa della propria libertà. Non è mai qualcosa di
stonato che cerca di forzare la nostra volontà, non è neppure un’euforia
passeggera: al contrario, come abbiamo visto, anche il dolore – ad esempio
per i propri peccati – può diventare motivo di consolazione.
Esercizi Spirituali, 335: «In quelli che procedono di bene
in meglio, l’angelo buono tocca l’anima dolcemente, delicatamente e
soavemente, come goccia d’acqua che entra in una spugna; e il cattivo tocca
in modo pungente e con strepito e inquietudine, come quando la goccia d’acqua
cade sopra la pietra. I sopraddetti spiriti toccano in modo contrario quelli
che procedono di male in peggio; causa di questo è la disposizione dell’anima
che è contraria o simile ai detti angeli; quando infatti è contraria, entrano
con strepito e facendosi sentire in maniera percettibile, e quando è simile,
entra silenziosamente come in casa propria a porta aperta».
CATECHESI SUL
DISCERNIMENTO. 10. LA CONSOLAZIONE AUTENTICA
30 novembre 2022
Proseguendo la nostra riflessione sul discernimento, e in
particolare sull’esperienza spirituale chiamata “consolazione”, della quale
abbiamo parlato l’altro mercoledì, ci chiediamo: come riconoscere la vera consolazione?
È una domanda molto importante per un buon discernimento, per non essere
ingannati nella ricerca del nostro vero bene.
Possiamo trovare alcuni criteri in un passo degli Esercizi
spirituali di Sant’Ignazio di Loyola. «Se nei pensieri tutto
è buono – dice Sant’Ignazio – il principio, il mezzo e la fine, e se tutto è
orientato verso il bene, questo è un segno dell’angelo buono. Può darsi
invece che nel corso dei pensieri si presenti qualche cosa cattiva o
distrattiva o meno buona di quella che l’anima prima si era proposta di fare,
oppure qualche cosa che indebolisce l’anima, la rende inquieta, la mette in
agitazione e le toglie la pace, le toglie la tranquillità e la calma che
aveva prima: questo allora è un chiaro segno che quei pensieri provengono
dallo spirito cattivo» (n. 333). Perché è vero: c’è una vera consolazione, ma
anche ci sono delle consolazioni che non sono vere. E per questo bisogna
capire bene il percorso della consolazione: come va e dove mi porta? Se mi
porta a una cosa che va meno, che non è buona, la consolazione non è vera, è
“finta”, diciamo così.
E queste sono indicazioni preziose, che meritano un breve
commento. Cosa significa che il principio è orientato al bene, come
dice Sant’Ignazio di una buona consolazione? Ad esempio ho il pensiero di
pregare, e noto che si accompagna ad affetto verso il Signore e il prossimo,
invita a compiere gesti di generosità, di carità: è un principio buono. Può
invece accadere che quel pensiero sorga per evitare un lavoro o un incarico
che mi è stato affidato: ogni volta che devo lavare i piatti o pulire la
casa, mi viene una grande voglia di mettermi a pregare! Succede questo, nei
conventi. Ma la preghiera non è una fuga dai propri compiti, al contrario è
un aiuto a realizzare quel bene che siamo chiamati a compiere, qui e ora.
Questo riguardo al principio.
C’è poi il mezzo: Sant’Ignazio diceva che il principio,
il mezzo e la fine devono essere buoni. Il principio è questo: io ho voglia
di pregare per non lavare i piatti: vai, lava i piatti e poi vai a pregare.
Poi c’è il mezzo, vale a dire ciò che viene dopo, ciò che segue quel
pensiero. Rimanendo nell’esempio precedente, se comincio a pregare e, come fa
il fariseo della parabola (cfr. Lc 18,9-14), tendo a compiacermi di me
stesso e a disprezzare gli altri, magari con animo risentito e acido, allora
questi sono segni che lo spirito cattivo ha usato quel pensiero come chiave
di accesso per entrare nel mio cuore e trasmettermi i suoi sentimenti. Se io
vado a pregare e mi viene in mente quello del fariseo famoso – “Ti ringrazio,
Signore, perché io prego, non sono come l’altra gente che non ti cerca, non
prega” – lì, quella preghiera finisce male. Quella consolazione di pregare è
per sentirsi un pavone davanti a Dio. E questo è il mezzo che non va.
E
poi c’è la fine: il principio, il mezzo e la fine. La fine è un
aspetto che abbiamo già incontrato, e cioè: dove mi porta un pensiero? Per
esempio, dove mi porta il pensiero di pregare. Ad esempio, qui può capitare
che mi impegni a fondo per un’opera bella e meritevole, ma questo mi spinge a
non pregare più, perché sono indaffarato da tante cose, mi scopro sempre più
aggressivo e incattivito, ritengo che tutto dipenda da me, fino a perdere
fiducia in Dio. Qui evidentemente c’è l’azione dello spirito cattivo. Io mi
metto a pregare, poi nella preghiera mi sento onnipotente, che tutto deve
essere nelle mie mani perché io sono l’unico, l’unica che sa portare avanti
le cose: evidentemente non c’è il buono spirito lì. Occorre esaminare bene il
percorso dei nostri sentimenti e il percorso dei buoni sentimenti, della
consolazione, nel momento in cui io voglio fare qualcosa. Come è il
principio, come è la metà e come è la fine.
CON I GESUITI DEL CONGO E DEL SUD SUDAN
2 febbraio 2023
Santo Padre, la Compagnia
di Gesù riceve la sua missione dal Papa. Qual è la missione che lei dà alla
Compagnia oggi?
Sono
d’accordo con le preferenze apostoliche universali che la Compagnia ha
elaborato. Esse consistono innanzitutto nell’indicare il cammino verso Dio
mediante gli Esercizi spirituali e
il discernimento.
La
seconda è quella della missione di riconciliazione e di giustizia, che va
fatta camminando insieme ai poveri, agli esclusi, a coloro che sono feriti
nella propria dignità. E poi i giovani: bisogna accompagnarli a creare il
futuro. Quindi la collaborazione nella cura della casa comune nello spirito
della Laudato si’.
Io
le ho approvate, e adesso i gesuiti devono incarnarle in ogni specifica
realtà locale nelle modalità più adatte e adeguate, non in modo teorico e
astratto. Ecco, voi dovete applicarle qui in Congo. […]
Santo Padre, la fede si
muove verso il Sud del mondo. I soldi no. Ha qualche paura, qualche speranza?
Se
uno non ha speranza, può chiudere la porta e andarsene via! Tuttavia, la mia
paura riguarda la cultura pagana molto generalizzata. I valori pagani oggi
contano sempre di più: denaro, reputazione, potere. Dobbiamo essere
consapevoli del fatto che il mondo si muove in una cultura pagana che ha i
propri idoli e i propri dèi. Denaro, potere e fama
sono cose che sant’Ignazio nei suoi Esercizi
spirituali indica come i peccati fondamentali. La scelta di sant’Ignazio
sulla povertà – a tal punto da far fare un voto speciale ai professi – è una
scelta contro il paganesimo, contro il dio denaro. Oggi la nostra è anche una
cultura pagana di guerra, dove conta quante armi hai. Sono tutte forme di
paganesimo.
Cfr. Esercizi Spirituali nn. 137-147.
Ma
poi, per favore, non siamo così ingenui da pensare che la cultura cristiana
sia la cultura di un partito unito, dove tutti aggruppati insieme fanno la
forza. Ma così la Chiesa diventa un partito. No! La cultura cristiana è,
invece, la capacità di interpretare, discernere e vivere il messaggio
cristiano, che il nostro paganesimo non vuole capire, non vuole accettare.
Siamo giunti al punto che se uno pensa alle esigenze della vita cristiana
nella cultura di oggi, ritiene che esse siano una forma di estremismo.
Dobbiamo imparare ad andare avanti in un contesto pagano, che non è poi
diverso da quello dei primi secoli.
Inizio
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