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by Paolo Monaco sj

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Esercizi

Papa Francesco e gli «Esercizi spirituali»
di sant’Ignazio di Loyola

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Il corpo
negli Esercizi
spirituali
di sant’Ignazio
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Chiara Lubich
e gli Esercizi
spirituali
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In compagnia
della Madre

 

Esercizi spirituali
nel Magistero
e in altri
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Gli Esercizi
spirituali
di s. Ignazio
di Loyola
e la spiritualità
dell'unità di
Chiara Lubich

 

Economia di
comunione
negli Esercizi
spirituali
di s. Ignazio
di Loyola

 

L’esercizio del re
nella tradizione
della Compagnia
di Gesù

 

 

 

 

 

Evangelii gaudium

 

Amoris laetitia

 

Gaudete et exsultate

 

Meditazione mattutina 16 maggio 2013

 

Meditazione mattutina 21 maggio 2013

 

Omelia in occasione della festa
di sant'Ignazio
31 luglio 2013

 

Lettera al Presidente della
Conferenza episcopale argentina
in occasione della beatificazione
di padre José Gabriel Brochero
14 settembre 2013

 

Ai partecipanti alla plenaria della
Congregazione per l'educazione cattolica
13 febbraio 2014

 

Ai partecipanti all'Assemblea della
Federazione Italiana Esercizi Spirituali (FIES)
3 marzo 2014

 

Ai rettori e agli alunni dei pontifici
collegi e convitti di Roma
12 maggio 2014

 

Celebrazione dei Vespri e Te Deum
in occasione del bicentenario della
ricostituzione della Compagnia di Gesù
27 settembre 2014

 

Agli aderenti al Cammino Neocatecumenale
18 marzo 2016

 

Giubileo straordinario della misericordia -
Ritiro spirituale in occasione del giubileo
dei sacerdoti - Prima meditazione
2 giugno 2016

 

Incontro privato con alcuni gesuiti polacchi
30 luglio 2016

 

Alla 36a Congregazione generale
della Compagnia di Gesù
24 ottobre 2016

 

Presentazione degli auguri natalizi
della Curia romana
22 dicembre 2016

 

Meditazione mattutina
6 febbraio 2017

 

Alla comunità del Pontificio seminario
campano di Posillipo
6 maggio 2017

 

Incontro privato con alcuni
gesuiti colombiani
10 settembre 2017

 

Meditazione mattutina
26 ottobre 2017

 

Conversazione con
i gesuiti del Myanmar
29 novembre 2017

 

Conversazione con i gesuiti del Cile
16 gennaio 2018

 

Conversazione con i gesuiti del Perù
19 gennaio 2018

 

Santa messa e benedizione dei palli
per i nuovi arcivescovi metropoliti
nella solennità dei santi apostoli
Pietro e Paolo
29 giugno 2018

 

Meditazione mattutina
4 settembre 2018

 

Incontro con i gesuiti lituani
23 settembre 2018

 

Alla comunità del Collegio
internazionale del Gesù di Roma
3 dicembre 2018

 

Dialogo con i gesuiti dell’America centrale
26 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

Conversazione con i gesuiti di Romania
31 maggio 2019

 

Dialogo con i gesuiti del Mozambico
5 settembre 2019

 

Cappella papale in suffragio dei cardinali
e dei vescovi defunti nel corso dell'anno
4 novembre 2019

 

Discorso ai partecipanti all'incontro
del Segretariato per la giustizia sociale
e l'ecologia della Compagnia di Gesù
7 novembre 2019

 

Presentazione degli scritti di M. A. Fiorito
13 dicembre 2019

 

Angelus 1 marzo 2020

 

Regina caeli
3 maggio 2020

 

Udienza generale
4 novembre 2020

 

Omelia Santa Messa del crisma
1 aprile 2021

 

Udienza generale
12 maggio 2021

 

Saluto alla delegazione della
Federazione Italiana Pallacanestro
31 maggio 2021

 

Conversazione con i gesuiti slovacchi
12 settembre 2021

 

Angelus
14 novembre 2021

 

Colloquio con i gesuiti della Grecia
4 dicembre 2021

 

Discorso ai membri del Collegio Cardinalizio
e della Curia romana
23 dicembre 2021

 

Angelus
6 marzo 2022

 

Praedicate Evangelium
19 marzo 2022

 

Conversazione con i direttori
delle riviste culturali europee dei gesuiti
19 maggio 2022

 

Volo papale
29 luglio 2022

 

Catechesi sul discernimento:
2. Un esempio: Ignazio di Loyola 
7
settembre 2022

 

Lettera all’em.mo Card. Omella in occasione
del V Centenario della conversione
di sant’Ignazio di Loyola
12 settembre 2022

 

Catechesi sul discernimento:
3. Gli elementi del discernimento. 
La familiarità con il Signore 
28 settembre 2022

 

Discorso a seminaristi e sacerdoti
che studiano a Roma
24 ottobre 2022

 

Catechesi sul discernimento.
7. La materia del discernimento. 
La desolazione 
26 ottobre 2022

 

Catechesi sul discernimento.
9. La consolazione 
23
novembre 2022

 

Catechesi sul discernimento.
10. La consolazione autentica 
30
novembre 2022

 

Con i gesuiti del Congo e del Sud Sudan
2 febbraio 2023

 

 

 

EVANGELII GAUDIUM

 

51. Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi». Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile tornare indietro. È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche ciò che nuoce al progetto di Dio. Questo implica non solo riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere quelle dello spirito cattivo.

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 313-316.

 

 

 

AMORIS LAETITIA

 

94. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole».[106] In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.

 

[106] Esercizi spirituali, Contemplazione per raggiungere l’amore, 230.

 

207. Invito le comunità cristiane a riconoscere che accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse. Come hanno detto bene i Vescovi d’Italia, coloro che si sposano sono per la comunità cristiana «una preziosa risorsa perché, impegnandosi con sincerità a crescere nell’amore e nel dono vicendevole, possono contribuire a rinnovare il tessuto stesso di tutto il corpo ecclesiale: la particolare forma di amicizia che essi vivono può diventare contagiosa, e far crescere nell’amicizia e nella fraternità la comunità cristiana di cui sono parte». Ci sono diversi modi legittimi di organizzare la preparazione prossima al matrimonio, e ogni Chiesa locale discernerà quale sia migliore, provvedendo ad una formazione adeguata che nello stesso tempo non allontani i giovani dal sacramento. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli con troppi argomenti. Anche in questo caso, infatti, vale che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose».[240] Interessa più la qualità che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la vita «con animo grande e liberalità».[241] Si tratta di una sorta di “iniziazione” al sacramento del matrimonio che fornisca loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare.

 

[240] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, annotazione 2.

[241] Ibid., annotazione 5.


 

 

 

GAUDETE ET EXSULTATE

 

20. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore. La contemplazione di questi misteri, come proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti.[18] Perché «tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero», «tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre», «tutta la vita di Cristo è mistero di Redenzione», «tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione», e «tutto ciò che Cristo ha vissuto fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che Egli lo viva in noi».

 

[18] Cfr Esercizi spirituali, 102-312.

 

69. Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto».[68]

 

[68] Esercizi spirituali, 23d: Roma 19846, 58-59.

 

153. Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera è intessuta di ricordi. Non solo del ricordo della Parola rivelata, bensì anche della propria vita, della vita degli altri, di ciò che il Signore ha fatto nella sua Chiesa. E’ la memoria grata di cui pure parla sant’Ignazio di Loyola nella sua «Contemplazione per raggiungere l’amore»,[116] quando ci chiede di riportare alla memoria tutti i benefici che abbiamo ricevuto dal Signore. Guarda la tua storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono.

 

[116] Cfr Esercizi spirituali, 230-237.

 

169. Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane. Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi. Pertanto chiedo a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame di coscienza. Al tempo stesso, il discernimento ci conduce a riconoscere i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore, perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni.

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.

 

 


 

MEDITAZIONE MATTUTINA
16
maggio 2013

 

Ecco allora che per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».

 

Papa Francesco ha poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me, cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 53.

 

 

 

MEDITAZIONE MATTUTINA
21
maggio 2013

 

Il Papa ha poi posto l’accento sul linguaggio che si usa abitualmente quando si intende sottolineare i passaggi di carriera: «Quando a una persona danno una carica che secondo gli occhi del mondo è una carica superiore, si dice: Ah, questa donna è stata promossa a presidente di quell’associazione; e questo uomo è stato promosso». Promuovere: «Sì — ha commentato — è un verbo bello. E si deve usare nella Chiesa, sì: questo è stato promosso alla croce; questo è stato promosso all’umiliazione. Questa è la vera promozione. Quella che ci fa assomigliare meglio a Gesù». Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, «ci fa chiedere al Signore crocifisso la grazia delle umiliazioni: Signore voglio essere umiliato, per assomigliare meglio a te. Questo è l’amore, è il potere di servizio nella Chiesa. E si servono meglio gli altri per la strada di Gesù» ha detto il Papa.

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 146-147.167

 

 

 

OMELIA IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SANT'IGNAZIO
31
luglio 2013

 

Lo stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà dirmi: lo sappiamo molto bene! Ma questo stemma ci ricorda continuamente una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di Gesù” per indicare il punto di riferimento. Del resto anche all’inizio degli Esercizi Spirituali, ci pone di fronte a nostro Signore Gesù Cristo, al nostro Creatore e Salvatore (cfr EE, 6). E questo porta noi Gesuiti e tutta la Compagnia ad essere “decentrati”, ad avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior”, l’”intimior intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore, volere e interesse” (EE, 189). Non è scontata la domanda per noi, per tutti noi: è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita? Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo, sbaglia.


 

Nella prima Lettura, Mosè ripete con insistenza al popolo di amare il Signore, di camminare per le sue vie, “perché è Lui la tua vita” (cfr Dt 30,16.20). Cristo è la nostra vita! Alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa. E anche in questo caso noi Gesuiti e l’intera Compagnia non siamo al centro, siamo, per così dire, “spostati”, siamo al servizio di Cristo e della Chiesa, la Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica (cfr EE, 353). Essere uomini radicati e fondati nella Chiesa: così ci vuole Gesù. Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante: andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività, ma sempre in comunità, nella Chiesa, con questa appartenenza che ci dà coraggio per andare avanti. Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e servirla con generosità e spirito di obbedienza.

 

Qual è la strada per vivere questa duplice centralità? Guardiamo all’esperienza di san Paolo, che è anche l’esperienza di sant’Ignazio. L’Apostolo, nella Seconda Lettura che abbiamo ascoltato, scrive: mi sforzo di correre verso la perfezione di Cristo “perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). Per Paolo è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da Cristo. Io cerco Gesù, io servo Gesù perché Lui mi ha cercato prima, perché sono stato conquistato da Lui: e questo è il cuore della nostra esperienza. Ma Lui è primo, sempre.

 

In spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. E’ primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è arrivato e ci aspetta. E qui vorrei richiamare la meditazione sul Regno nella Seconda Settimana. Cristo nostro Signore, Re eterno, chiama ciascuno di noi dicendoci: “chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria” (EE, 95): Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica (cfr EE, 96); dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà (cfr EE, 98). Ma penso al nostro fratello in Siria in questo momento. Lasciarsi conquistare da Cristo significa essere sempre protesi verso ciò che mi sta di fronte, verso la meta di Cristo (cfr Fil 3,14) e chiedersi con verità e sincerità: Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo? (cfr EE, 53).

 

E vengo all’ultimo punto. Nel Vangelo Gesù ci dice: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà… Chi si vergognerà di me…” (Lc 9, 23). E così via. La vergogna del Gesuita. L’invito che fa Gesù è di non vergognarsi mai di Lui, ma di seguirlo sempre con dedizione totale, fidandosi e affidandosi a Lui. Ma guardando a Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria (cfr EE, 59). Chiedere la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”.

 

 

 

LETTERA AL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ARGENTINA
IN OCCASIONE DELLA BEATIFICAZIONE DI PADRE JOSÉ GABRIEL BROCHERO
14 settembre 2013

 

Mi piace immaginare oggi Brochero parroco sulla sua mula dalla frangetta bianca (malacara), mentre percorreva i lunghi sentieri aridi e desolati dei duecento chilometri quadrati della sua parrocchia, cercando casa per casa i vostri bisnonni e trisnonni, per chiedere loro se avevano bisogno di qualcosa e per invitarli a fare gli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Conobbe ogni angolo della sua parrocchia. Non rimase in sacrestia a pettinare pecore […]


 

José Gabriel Brochero incentrò la sua azione pastorale sulla preghiera. Appena giunse alla sua parrocchia, cominciò a portare uomini e donne a Córdoba per fare gli esercizi spirituali con i padri gesuiti. Con quanto sacrificio prima attraversavano le Sierras Grandes, innevate in inverno, per andare a pregare nella capitale Córdoba! E poi, quanto lavoro per costruire la Santa Casa degli Esercizi nella sede parrocchiale! Lì, una lunga preghiera davanti al crocifisso per conoscere, sentire e assaporare l’amore tanto grande del cuore di Gesù e poi tutto culminava con il perdono di Dio nella confessione, con un sacerdote pieno di carità e di misericordia. Moltissima misericordia!

 

Questo coraggio apostolico di Brochero pieno di zelo missionario, questo ardire del suo cuore compassionevole come quello di Gesù che gli faceva dire: «Guai se il diavolo mi ruba un’anima!», lo spinse a conquistare a Dio anche persone di malaffare e compaesani difficili. Si contano a migliaia gli uomini e le donne che, grazie al lavoro sacerdotale di Brochero, abbandonarono il vizio e le liti. Tutti ricevevano i sacramenti durante gli esercizi spirituali e, con essi, la forza e la luce della fede per essere buoni figli di Dio, buoni fratelli, buoni padri e madri di famiglia, in una grande comunità di amici impegnati nel bene di tutti, che si rispettavano e aiutavano gli uni gli altri.

 

 

 

AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE
PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA (DEGLI ISTITUTI DI STUDI)
13 febbraio 2014

 

L’educatore nelle scuole cattoliche dev’essere anzitutto molto competente, qualificato, e al tempo stesso ricco di umanità, capace di stare in mezzo ai giovani con stile pedagogico, per promuovere la loro crescita umana e spirituale. I giovani hanno bisogno di qualità dell’insegnamento e insieme di valori, non solo enunciati, ma testimoniati. La coerenza è un fattore indispensabile nell’educazione dei giovani. Coerenza! Non si può far crescere, non si può educare senza coerenza: coerenza, testimonianza.

 

Per questo l’educatore ha bisogno egli stesso di una formazione permanente. Occorre dunque investire affinché docenti e dirigenti possano mantenere alta la loro professionalità e anche la loro fede e la forza delle loro motivazioni spirituali. E anche in questa formazione permanente mi permetto di suggerire la necessità dei ritiri e degli esercizi spirituali per gli educatori. E’ bello fare corsi su questo e quell’argomento, ma anche è necessario fare corsi di esercizi spirituali, ritiri, per pregare! Perché la coerenza è uno sforzo, ma soprattutto è un dono e una grazia. E dobbiamo chiederla!

 

 

 

AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA
DELLA FEDERAZIONE ITALIANA ESERCIZI SPIRITUALI (FIES)
3 marzo 2014

 

Eccellenza, cari fratelli e sorelle,

 

vi incontro molto volentieri in occasione di questo anniversario. Saluto il Presidente, lo saluto e anche lo ringrazio per le sue parole. Saluto i Consiglieri, i Delegati, e tutti i presenti.

 

Questo importante anniversario vi offre l’occasione propizia per un bilancio, per ripensare alla vostra storia facendo memoria delle origini e leggendo i nuovi segni dei tempi. Perciò è bene ricordare la finalità della Federazione, che è quella di «far conoscere gli esercizi spirituali, intesi come un’esperienza forte di Dio in un clima di ascolto della Parola in ordine a una conversione e donazione sempre più totale a Cristo e alla Chiesa» (art. 2).

 

Il tema che avete scelto per la vostra Assemblea: «Innamorati della bellezza spirituale per diffondere il buon profumo di Cristo» (cfr 2 Cor 2,14), esprime il convincimento che proporre gli Esercizi Spirituali significa invitare ad un’esperienza di Dio, del suo amore, della sua bellezza. Chi vive gli Esercizi in modo autentico sperimenta l’attrazione, il fascino di Dio, e ritorna rinnovato, trasfigurato alla vita ordinaria, al ministero, alle relazioni quotidiane, portando con sé il profumo di Cristo.

 

Gli uomini e le donne di oggi hanno bisogno di incontrare Dio, di conoscerlo “non per sentito dire” (cfr Gb 42,5). Il vostro servizio è tutto orientato a questo, e lo fate offrendo spazi e tempi di ascolto intenso della sua Parola nel silenzio e nella preghiera. Luoghi privilegiati per tale esperienza spirituale sono le Case di Spiritualità, che vanno, a questo scopo, sostenute e fornite di personale adeguato. Incoraggio i Pastori delle varie comunità a preoccuparsi perché non manchino Case di Esercizi, dove operatori ben formati e predicatori preparati, dotati di qualità dottrinali e spirituali, siano veri maestri di spirito. Tuttavia, non dimentichiamo mai che il protagonista della vita spirituale è lo Spirito Santo. Egli sostiene ogni nostra iniziativa di bene e di preghiera.

 

Cari amici, un buon corso di Esercizi Spirituali contribuisce a rinnovare in chi vi partecipa l’adesione incondizionata a Cristo, e aiuta a capire che la preghiera è il mezzo insostituibile di unione a Lui crocifisso: pone me iuxta te! Vi ringrazio per il servizio prezioso che rendete alla Chiesa, affinché la pratica degli Esercizi Spirituali sia diffusa, sostenuta e valorizzata. La Madonna vi assista sempre in questo lavoro. Da parte mia, vi chiedo di pregare per me, e su tutti voi invoco l’abbondanza delle benedizioni celesti.

 

 

 

AI RETTORI E AGLI ALUNNI DEI PONTIFICI COLLEGI E CONVITTI DI ROMA
12 maggio 2014

 

D. – […] la Chiesa ha bisogno di pastori capaci di guidare, governare, comunicare come ci richiede il mondo di oggi. Come si impara e si esercita la leadership nella vita sacerdotale, assumendo il modello di Cristo che si è abbassato assumendo la croce, la morte in croce?, assumendo la condizione di servo fino alla morte in croce? Grazie […]

 

R. – La leadership… questo è il centro della domanda… C’è una sola strada – poi parlerò dei pastori – ma per la leadership c’è una sola strada: il servizio. Non ce n’è un’altra. Se tu hai tante qualità – comunicare, ecc. - ma non sei un servitore, la tua leadership cadrà, non serve, non è capace di convocare. Soltanto il servizio: essere al servizio… Ricordo un padre spirituale molto buono, la gente andava da lui, tanto che alcune volte non poteva pregare tutto il breviario. E alla notte, andava dal Signore e diceva: “Signore, guarda, non ho fatto la tua volontà, ma neppure la mia! Ho fatto la volontà degli altri!”. Così, tutti e due – il Signore e lui – si consolavano. Il servizio è fare, tante volte, la volontà degli altri. […]

 

Il servizio del pastore. Il pastore deve essere sempre a disposizione del suo popolo. Il pastore deve aiutare il popolo a crescere, a camminare. Ieri, nella Lettura mi sono incuriosito perché nel Vangelo si diceva il verbo “spingere”: il pastore spinge le pecorelle perché escano a cercare l’erba. Mi sono incuriosito: le fa uscire, le fa uscire con forza! L’originale ha un certo tono di questo: fa uscire, ma con forza. E’ come caccia via: “vai, vai!”. Il pastore che fa crescere il suo popolo e che va sempre con il suo popolo. Alcune volte, il pastore deve andare avanti, per indicare la strada; altre volte, in mezzo, per conoscere cosa succede; tante volte, dietro, per aiutare a quegli ultimi e anche per seguire il fiuto delle pecore che sanno dove c’è l’erba buona.

 

Il pastore… Sant’Agostino, riprendendo Ezechiele, dice che dev’essere al servizio delle pecore e sottolinea due pericoli: il pastore che sfrutta le pecore per mangiare, per fare soldi, per interesse economico, materiale, e il pastore che sfrutta le pecore per vestirsi bene. La carne e la lana. Dice sant’Agostino. Leggete quel bel sermone De pastoribus. Bisogna leggerlo e rileggerlo. Sì, sono i due peccati dei pastori: i soldi, che diventano ricchi e fanno le cose per soldi – pastori affaristi –; e la vanità, sono i pastori che si credono in uno stato superiore al loro popolo, distaccati… pensiamo, i pastori-principi. Il pastore-affarista e il pastore-principe. Queste sono le due tentazioni che sant’Agostino, riprendendo quel brano di Ezechiele, dice nel suo sermone. E’ vero, un pastore che cerca se stesso, sia per la strada dei soldi sia per la strada della vanità, non è un servitore, non ha una vera leadership.

 


L’umiltà dev’essere l’arma del pastore: umile, sempre al servizio. Deve cercare il servizio. E non è facile essere umile, no, non è facile! Dicono i monaci del deserto che la vanità è come la cipolla: tu, quando prendi una cipolla, cominci a sfogliarla, e tu ti senti vanitoso e incominci a sfogliare la vanità. E vai, e vai, e un’altra foglia, e un’altra, e un’altra, e un’altra… alla fine, tu arrivi a… niente. “Ah, grazie a Dio, ho sfogliato la cipolla, ho sfogliato la vanità”. Fai così, e hai l’odore della cipolla! Così dicono i padri del deserto. La vanità è così. Una volta ho sentito un gesuita – buono, un buon uomo –, ma era tanto vanitoso, tanto vanitoso… E tutti noi gli dicevamo: “Tu sei vanitoso!”, ma lui era tanto buono che lo perdonavamo tutti. E se n’è andato a fare gli esercizi spirituali, e quando è tornato ci ha detto, a noi, nella comunità: “Che begli esercizi! Ho fatto otto giorni di Cielo, e ho trovato che io ero tanto vanitoso! Ma grazie a Dio, ho vinto tutte le passioni!”. La vanità è così! E’ tanto difficile togliere la vanità da un prete. Ma il popolo di Dio ti perdona tante cose: ti perdona se hai avuto una scivolata, affettiva, te lo perdona. Ti perdona se hai avuto una scivolata con un po’ più di vino, te la perdona. Ma non ti perdona se sei un pastore attaccato ai soldi, se sei un pastore vanitoso che non tratta bene la gente. Perché il vanitoso non tratta bene la gente. Soldi, vanità e orgoglio. I tre scalini che ci portano a tutti i peccati. Il popolo di Dio capisce le nostre debolezze, e le perdona; ma queste due, non le perdona! L’attaccamento ai soldi non lo perdona, nel pastore. E non trattare bene loro, non lo perdona. E’ curioso, no? Questi due difetti, dobbiamo lottare per non averli. Poi, la leadership deve andare nel servizio, ma con un amore personale alla gente […]

 

 

 

CELEBRAZIONE DEI VESPRI E TE DEUM IN OCCASIONE DEL BICENTENARIO
DELLA RICOSTITUZIONE DELLA COMPAGNIA DI GESù
27
settembre 2014

 

Cari fratelli e amici nel Signore, la Compagnia insignita del nome di Gesù ha vissuto tempi difficili, di persecuzione. Durante il generalato del p. Lorenzo Ricci «i nemici della Chiesa giunsero ad ottenere la soppressione della Compagnia» (Giovanni Paolo II, Messaggio a p. Kolvenbach, 31 luglio 1990) da parte del mio predecessore Clemente XIV. Oggi, ricordando la sua ricostituzione, siamo chiamati a recuperare la nostra memoria, a fare memoria, richiamando alla mente i benefici ricevuti e i doni particolari (cfr Esercizi Spirituali, 234). E oggi voglio farlo qui con voi.

 

 

 

AGLI ADERENTI AL CAMMINO NEOCATECUMENALE
18
marzo 2016

 

Voi avete ricevuto un grande carisma, per il rinnovamento battesimale della vita; infatti si entra nella Chiesa attraverso il Battesimo. Ogni carisma è una grazia di Dio per accrescere la comunione. Ma il carisma può deteriorarsi quando ci si chiude o ci si vanta, quando ci si vuole distinguere dagli altri. Perciò bisogna custodirlo. Custodite il vostro carisma! Come? Seguendo la via maestra: l’unità umile e obbediente. Se c’è questa, lo Spirito Santo continua a operare, come ha fatto in Maria, aperta, umile e obbediente. È sempre necessario vigilare sul carisma, purificando gli eventuali eccessi umani mediante la ricerca dell’unità con tutti e l’obbedienza alla Chiesa. Così si respira nella Chiesa e con la Chiesa; così si rimane figli docili della «Santa Madre Chiesa Gerarchica», con «l’animo apparecchiato e pronto» per la missione (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 353).

 

Sottolineo questo aspetto: la Chiesa è nostra Madre. Come i figli portano impressa nel volto la somiglianza con la mamma, così tutti noi assomigliamo alla nostra Madre, la Chiesa. Dopo il Battesimo non viviamo più come individui isolati, ma siamo diventati uomini e donne di comunione, chiamati ad essere operatori di comunione nel mondo. Perché Gesù non solo ha fondato la Chiesa per noi, ma ha fondato noi come Chiesa. La Chiesa non è uno strumento per noi: noi siamo Chiesa. Da lei siamo rinati, da lei veniamo nutriti con il Pane di vita, da lei riceviamo parole di vita, siamo perdonati e accompagnati a casa. Questa è la fecondità della Chiesa, che è Madre: non è una organizzazione che cerca adepti, o un gruppo che va avanti seguendo la logica delle sue idee, ma è una Madre che trasmette la vita ricevuta da Gesù.

 

 


 

GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA - RITIRO SPIRITUALE
IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEI SACERDOTI - PRIMA MEDITAZIONE
2 giugno 2016

 

Quando meditiamo sulla misericordia accade qualcosa di speciale. La dinamica degli Esercizi Spirituali si potenzia dall’interno. La misericordia fa vedere che le vie oggettive della mistica classica – purgativa, illuminativa e unitiva – non sono mai fasi successive, che si possano lasciare alle spalle. Abbiamo sempre bisogno di nuova conversione, di maggiore contemplazione e di un rinnovato amore. Queste tre fasi si intrecciano e ritornano. Niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia – e questa non è una esagerazione: niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia – sia che si tratti della misericordia con la quale il Signore ci perdona i nostri peccati, sia che si tratti della grazia che ci dà per praticare le opere di misericordia in suo nome. Niente illumina di più la fede che il purgare i nostri peccati, e niente vi è di più chiaro che Matteo 25 e quel «Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia» (Mt 5,7) per comprendere qual è la volontà di Dio, la missione alla quale ci invia. Alla misericordia si può applicare quell’insegnamento di Gesù: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Mt 7,2). Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che “bastonano” i penitenti, che li rimproverano. Ma così li tratterà Dio! Almeno per questo, non fate queste cose. La misericordia ci permette di passare dal sentirci oggetto di misericordia al desiderio di offrire misericordia. Possono convivere, in una sana tensione, il sentimento di vergogna per i propri peccati con il sentimento della dignità alla quale il Signore ci eleva. Possiamo passare senza preamboli dalla distanza alla festa, come nella parabola del figlio prodigo, e utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato. Ripeto questo, che è la chiave della prima mediazione: utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato. La misericordia ci spinge a passare dal personale al comunitario. Quando agiamo con misericordia, come nei miracoli della moltiplicazione dei pani, che nascono dalla compassione di Gesù per il suo popolo e per gli stranieri, i pani si moltiplicano nella misura in cui vengono condivisi. […]

 

[…] due consigli pratici che dà sant’Ignazio - mi scuso per la pubblicità “di famiglia” - il quale dice: «Non è il molto sapere che riempie e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose di Dio interiormente» (Esercizi Spirituali, 2). Sant’Ignazio aggiunge che lì dove uno trova quello che desidera e prova gusto, lì si fermi in preghiera «senza avere l’ansia di passare ad altro, finché mi soddisfi» (ibid., 76). Così che, in queste meditazioni sulla misericordia, uno può iniziare da dove più gli piace e lì soffermarsi, dal momento che sicuramente un’opera di misericordia vi condurrà alle altre. Se iniziamo ringraziando il Signore, che in modo stupendo ci ha creati e in modo ancor più stupendo ci ha redenti, sicuramente questo ci condurrà a provare pena per i nostri peccati. Se cominciamo col provare compassione per i più poveri e lontani, sicuramente sentiremo anche noi la necessità di ricevere misericordia. […]

 

Nella nostra preghiera, serena, che va dalla vergogna alla dignità e dalla dignità alla vergogna – tutte e due insieme – chiediamo la grazia di sentire tale misericordia come costitutiva di tutta la nostra vita; la grazia di sentire come quel battito del cuore del Padre si unisca con il battito del nostro. Non basta sentire la misericordia di Dio come un gesto che, occasionalmente, Egli fa perdonandoci qualche grosso peccato, e per il resto ci aggiustiamo da soli, autonomamente. Non basta.

 

Sant’Ignazio propone un’immagine cavalleresca propria della sua epoca, ma poiché la lealtà tra amici è un valore perenne, può aiutarci. Egli afferma che, per sentire «confusione e vergogna» per i nostri peccati (e non smettere di sentire la misericordia) possiamo far uso di un esempio: immaginiamo «un cavaliere che vada davanti al suo re e a tutta la sua corte, pieno di vergogna e confuso per averlo molto offeso, dal momento che da parte del re aveva in precedenza ricevuto molti doni e molte grazie» (Esercizi Spirituali, 74). Immaginiamo quella scena. Tuttavia, seguendo la dinamica del figlio prodigo nella festa, immaginiamo questo cavaliere come uno che, invece di essere svergognato davanti a tutti, il re, al contrario, lo prenda inaspettatamente per la mano e gli restituisca la sua dignità. E vediamo che non solo lo invita a seguirlo nella sua battaglia, ma che lo pone alla testa dei suoi compagni. Con quale umiltà e lealtà lo servirà questo cavaliere d’ora in avanti! Questo mi fa pensare all’ultima parte del capitolo 16 di Ezechiele, l’ultima parte.

 

Sia che si senta come il figlio prodigo festeggiato, sia come il cavaliere sleale trasformato in superiore, l’importante è che ciascuno si ponga nella tensione feconda in cui la misericordia del Signore ci colloca: non solamente di peccatori perdonati, ma di peccatori a cui è conferita dignità. Il Signore non solamente ci pulisce, ma ci incorona, ci dà dignità.

 

 

 

INCONTRO PRIVATO CON ALCUNI GESUITI POLACCHI
30 luglio 2016

 

Qual è il ruolo dell’Università dei gesuiti?

 

Una Università retta dai gesuiti deve puntare a una formazione globale e non solamente intellettuale, una formazione di tutto l’uomo. Infatti se l’Università diviene semplicemente una accademia di nozioni o una «fabbrica» di professionisti, o nella sua struttura prevale una mentalità centrata sugli affari, allora è davvero fuori strada. Noi abbiamo in mano gli Esercizi. Ecco la sfida: portare l’Università sulla strada degli Esercizi. Questo significa rischiare sulla verità e non sulle «verità chiuse» che nessuno discute. La verità dell’incontro con le persone è aperta e richiede di lasciarsi interpellare davvero dalla realtà. E l’Università dei gesuiti deve essere coinvolta anche nella vita reale della Chiesa e della Nazione: anche questa è realtà, infatti. Una particolare attenzione deve essere sempre data agli emarginati, alla difesa di coloro che hanno più bisogno di essere protetti. E questo — sia chiaro — non è essere comunisti: è semplicemente essere davvero coinvolti con la realtà. In questo caso, in particolare una Università dei gesuiti deve essere pienamente coinvolta con la realtà esprimendo il pensiero sociale della Chiesa. Il pensiero liberista, che sposta l’uomo dal centro e ha messo al centro il denaro, non è il nostro. La dottrina della Chiesa è chiara e bisogna andare avanti in questo senso.

 

In questo gruppo ci sono alcuni preti appena ordinati. Ha consigli per il loro futuro?

 

Tu sai: il futuro è di Dio. Il massimo che noi possiamo fare sono i futuribili. E i futuribili sono tutti del cattivo spirito! Un consiglio: il sacerdozio è una grazia davvero grande; il tuo sacerdozio come gesuita sia bagnato della spiritualità che tu hai vissuto fino ad ora: la spiritualità del Suscipe di sant’Ignazio (1).

 

(1) Il Suscipe è una preghiera che sant’Ignazio inserisce nei suoi Esercizi Spirituali all’interno della cosiddetta Contemplatio ad amorem (n. 234): «Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta». Ricordiamo che anche Benedetto XVI aveva raccomandato il Suscipe ignaziano, rispondendo ai seminaristi durante una visita al Seminario Romano Maggiore, il 17 febbraio 2007.

 

Voglio aggiungere adesso una cosa. Vi chiedo di lavorare con i seminaristi. Soprattutto date loro quello che noi abbiamo ricevuto dagli Esercizi: la saggezza del discernimento. La Chiesa oggi ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale.

 

Alcuni piani di formazione sacerdotale corrono il pericolo di educare alla luce di idee troppo chiare e distinte, e quindi di agire con limiti e criteri definiti rigidamente a priori, e che prescindono dalle situazioni concrete: «Si deve fare questo, non si deve fare questo…». E quindi i seminaristi, diventati sacerdoti, si trovano in difficoltà nell’accompagnare la vita di tanti giovani e adulti. Perché molti chiedono: «Questo si può o non si può?». Tutto qui. E molta gente esce dal confessionale delusa. Non perché il sacerdote sia cattivo, ma perché il sacerdote non ha la capacità di discernere le situazioni, di accompagnare nel discernimento autentico. Non ha avuto la formazione necessaria.

 

Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere. E soprattutto i sacerdoti ne hanno davvero bisogno per il loro ministero. Per questo occorre insegnare ai seminaristi e ai sacerdoti in formazione: loro abitualmente riceveranno le confidenze della coscienza dei fedeli. La direzione spirituale non è un carisma solamente sacerdotale, ma anche laicale, è vero. Ma, ripeto, bisogna insegnare questo soprattutto ai sacerdoti, aiutarli alla luce degli Esercizi nella dinamica del discernimento pastorale, che rispetta il diritto, ma sa andare oltre. Questo è un compito importante per la Compagnia.

 


Mi ha colpito tanto un pensiero del padre Hugo Rahner (2). Lui pensava chiaro e scriveva chiaro! Hugo diceva che il gesuita dovrebbe essere un uomo dal fiuto del soprannaturale, cioè dovrebbe essere dotato di un senso del divino e del diabolico relativo agli avvenimenti della vita umana e della storia. Il gesuita deve essere dunque capace di discernere sia nel campo di Dio sia nel campo del diavolo. Per questo negli Esercizi sant’Ignazio chiede di essere introdotto sia alle intenzioni del Signore della vita sia a quelle del nemico della natura umana e ai suoi inganni. È audace, è audace veramente quello che ha scritto, ma è proprio questo il discernimento! Bisogna formare i futuri sacerdoti non a idee generali e astratte, che sono chiare e distinte, ma a questo fine discernimento degli spiriti, perché possano davvero aiutare le persone nella loro vita concreta. Bisogna davvero capire questo: nella vita non è tutto nero su bianco o bianco su nero. No! Nella vita prevalgono le sfumature di grigio. Occorre allora insegnare a discernere in questo grigio.

 

(2) Qui il Pontefice si riferisce a un testo di Hugo Rahner nato in seguito a una sessione di studi sulla spiritualità ignaziana. L’edizione italiana più recente è la seguente: Come sono nati gli Esercizi. Il cammino spirituale di sant’Ignazio di Loyola, Roma, AdP, 2004. Francesco qui si sta riferendo alle riflessioni che Hugo Rahner scrive nel capitolo ottavo del volume. Notiamo che il capitolo terzo dello stesso studio fu citato dal beato Paolo VI il 3 dicembre 1974, parlando alla XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù.

 

 

 

ALLA 36a CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
24 ottobre 2016

 

Si può sempre fare un passo avanti nel chiedere insistentemente la consolazione. Nelle due Esortazioni Apostoliche [Evangelii gaudium e Amoris laetitia] e nell’Enciclica Laudato si ho voluto insistere sulla gioia. Ignazio, negli Esercizi fa contemplare ai suoi amici «il compito di consolare», come specifico di Cristo Risorto (ES 224). E’ compito proprio della Compagnia consolare il popolo fedele e aiutare con il discernimento affinché il nemico della natura umana non ci sottragga la gioia: la gioia di evangelizzare, la gioia della famiglia, la gioia della Chiesa, la gioia del creato… Che non ce la rubi né per scoraggiamento di fronte alla grandezza dei mali del mondo e ai malintesi tra coloro che si propongono di fare il bene, né che ce la rimpiazzi con le gioie fatue che sono sempre a portata di mano in qualsiasi negozio.

 

Questo “servizio della gioia e della consolazione spirituale” è radicato nella preghiera. Consiste nell’incoraggiarci e incoraggiare tutti a «chiedere insistentemente la consolazione a Dio». Ignazio lo formula in modo negativo nella 6ª regola della prima settimana, quando afferma che «giova molto cambiare intensamente sé stessi contro la stessa desolazione» insistendo nella preghiera (ES 319). Giova perché nella desolazione ci accorgiamo di quanto poco valiamo senza quella grazia e consolazione (cfr ES 324). Praticare e insegnare questa preghiera di chiedere e supplicare la consolazione è il principale servizio alla gioia. Se qualcuno non si ritiene degno (cosa molto comune nella pratica), almeno insista nel chiedere questa consolazione per amore al messaggio, dal momento che la gioia è costitutiva del messaggio evangelico, e la chieda anche per amore agli altri, alla sua famiglia e al mondo. Una buona notizia non si può dare con il volto triste. La gioia non è un “di più” decorativo, è chiaro indice della grazia: indica che l’amore è attivo, operante, presente. Perciò il cercarla non va confuso con il cercare “un effetto speciale”, che la nostra epoca sa produrre per esigenze di consumo, bensì la si cerca nel suo indice esistenziale che è la “permanenza”: Ignazio apre gli occhi e si sveglia al discernimento degli spiriti scoprendo questo diverso valore tra gioie durature e gioie passeggere (Autobiog 8). Il tempo sarà l’elemento che gli offre la chiave per riconoscere l’azione dello Spirito.

 

Negli Esercizi, il “progresso” nella vita spirituale si dà nella consolazione: è l’andare procedendo di bene in meglio (cfr ES 315) e anche «ogni aumento di speranza, fede, e carità, e ogni gioia interiore» (ES 316). Questo servizio della gioia fu quello che condusse i primi compagni a decidere di non sciogliere ma costituire la compagnia che si offrivano e condividevano spontaneamente e la cui caratteristica era la gioia che dava loro il pregare insieme, l’uscire in missione insieme e il tornare a riunirsi, ad imitazione della vita che conducevano il Signore e i suoi Apostoli. Questa gioia dell’annuncio esplicito del Vangelo – mediante la predicazione della fede e la pratica della giustizia e della misericordia – è ciò che porta la Compagnia ad uscire verso tutte le periferie.

 

Il gesuita è un servitore della gioia del Vangelo, sia quando lavora “artigianalmente” conversando e dando gli esercizi spirituali a una sola persona, aiutandola a incontrare quel «luogo interiore da dove gli viene la forza dello Spirito che lo guida, lo libera e lo rinnova» [10], sia quando lavora in maniera strutturata organizzando opere di formazione, di misericordia, di riflessione, che sono prolungamento istituzionale di quel punto di inflessione in cui si dà il superamento della propria volontà ed entra in azione lo Spirito. Bene affermava M. De Certeau: gli Esercizi sono «il metodo apostolico per eccellenza», poiché rendono possibile «il ritorno al cuore, al principio di una docilità allo Spirito, che risveglia e spinge chi compie gli esercizi a una fedeltà personale a Dio» [11].

 

[10] Pierre Favre, Memorial, Paris, Desclée, 1959; cfr Introduction de M. De CERTAU, pag. 74.

[11] Ibid. 76.

 

Il Giubileo della Misericordia è un tempo propizio per riflettere sui servizi della misericordia. Lo dico al plurale perché la misericordia non è una parola astratta ma uno stile di vita, che antepone alla parola i gesti concreti che toccano la carne del prossimo e si istituzionalizzano in opere di misericordia. Per noi che facciamo gli Esercizi, questa grazia mediante la quale Gesù ci comanda di assomigliare al Padre (cfr Lc 6,36) inizia con quel colloquio di misericordia che è il prolungamento del colloquio con il Signore crocifisso a causa dei miei peccati. Tutto il secondo esercizio è un colloquio pieno di sentimenti di vergogna, confusione, dolore e lacrime di gratitudine vedendo chi sono io – facendomi piccolo – e chi è Dio – magnificandolo – lui «che mi ha conservato in vita fino ad ora» (ES 61), chi è Gesù, appeso alla croce per me. Il modo in cui Ignazio vive e formula la sua esperienza della misericordia è di grande giovamento personale e apostolico e richiede un’acuta ed elevata esperienza di discernimento. Diceva il nostro padre a [san Francesco] Borgia: «Quanto a me, mi persuado che prima e dopo sono tutto un impedimento; e di ciò sento una più grande contentezza e gioia spirituale nel Signore nostro, per il fatto di non potere attribuire a me cosa alcuna che appaia buona» [12]. Ignazio vive dunque della pura misericordia di Dio fin nelle cose più piccole della sua vita e della sua persona. E sentiva che quanto più impedimento egli poneva, con tanta maggior bontà lo trattava il Signore: «Tanta era la misericordia del Signore, e tanta la copia della soavità e dolcezza della grazia sua con esso lui, che quanto egli più desiderava d’essere in questo modo gastigato, tanto più benigno era Iddio e con abbondanza maggiore spargeva sopra di lui i tesori della sua infinita liberalità. Laonde diceva, che egli credeva no vi essere nel mondo uomo, in cui queste due cose insieme, tanto come in lui, concorressero; la prima mancare tanto a Dio e l’altra il ricevere tante e così continue grazie dalla sua mano» [13].

 

Ignazio, nel formulare la sua esperienza della misericordia in questi termini comparativi – quanto più sentiva di far torto al Signore, tanto più il Signore abbondava nel dargli la sua grazia – libera la forza vivificante della misericordia che noi molte volte diluiamo con formulazioni astratte e condizioni legalistiche. Il Signore, che ci guarda con misericordia e ci sceglie, ci invia per far giungere con tutta la sua efficacia la stessa misericordia ai più poveri, ai peccatori, agli scartati e ai crocifissi del mondo attuale che soffrono l’ingiustizia e la violenza. Solo se sperimentiamo questa forza risanatrice nel vivo delle nostre stesse piaghe, come persone e come corpo [comunità], perderemo la paura di lasciarci commuovere dall’immensità della sofferenza dei nostri fratelli e ci lanceremo a camminare pazientemente con la nostra gente, imparando da essa il modo migliore di aiutarla e servirla (cfr CG 32 d 4 n 50).

 

[12] Ignazio di Loyola, Lettera 26 a Francisco de Borja, fine del 1545.

[13] P. Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loiola, Roma, La Civiltà Cattolica, 1863, 336.

 

 

 


PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI DELLA CURIA ROMANA
22 dicembre 2016

 

Proprio sotto questa luce soave e imponente del volto divino di Cristo bambino, ho scelto come argomento di questo nostro incontro annuale la riforma della Curia Romana. Mi è sembrato giusto e opportuno condividere con voi il quadro della riforma, evidenziando i criteri-guida, i passi compiuti, ma soprattutto la logica del perché di ogni passo realizzato e di ciò che verrà compiuto.

 

In verità, qui mi torna spontaneo alla memoria l’antico adagio che illustra la dinamica degli Esercizi Spirituali nel metodo ignaziano, ossia: deformata reformare, reformata conformare, conformata confirmare e confirmata transformare.

 

Non v’è dubbio che nella Curia il significato della ri-forma può essere duplice: anzitutto renderla con-forme alla Buona Novella che deve essere proclamata gioiosamente e coraggiosamente a tutti, specialmente ai poveri, agli ultimi e agli scartati; con-forme ai segni del nostro tempo e a tutto ciò che di buono l’uomo ha raggiunto, per meglio andare incontro alle esigenze degli uomini e delle donne che siamo chiamati a servire[7]; al tempo stesso si tratta di rendere la Curia più conforme al suo fine, che è quello di collaborare al ministero proprio del Successore di Pietro[8] («cum Ipso consociatam operam prosequuntur», dice il Motu proprio Humanam progressionem), quindi di sostenere il Romano Pontefice nell’esercizio della sua potestà singolare, ordinaria, piena, suprema, immediata e universale.

 

 

 

MEDITAZIONE MATTUTINA
6
febbraio 2017

 

Per la sua meditazione, Francesco ha preso le mosse dal salmo 103, nel quale, ha fatto notare, «abbiamo lodato il Signore» dicendo: «Sei tanto grande, Signore, mio Dio! Sei tanto grande!». Un salmo che, ha affermato, «è stato un canto di lode: lodiamo il Signore per le cose che abbiamo sentito in ambedue le letture, per la creazione, tanto grande; e, nella seconda lettura, per la ri-creazione, ancora più meravigliosa della creazione, che fa Gesù». Il riferimento è appunto ai testi proposti dalla liturgia della parola, tratti dal libro della Genesi (1, 1-19) e dal vangelo di Marco (6, 53-56). Il Papa ha spiegato che «il Padre lavora» e lo stesso «Gesù dice: “Mio Padre opera e anch’io opero”. È un modo di dire “lavoro”, ad instar laborantis, come uno che lavora, come precisa sant’Ignazio negli esercizi» (cfr. Esercizi spirituali 236).

 

E così «il Padre lavora per fare questa meraviglia della creazione — ha proseguito Francesco — e per fare col Figlio questa meraviglia della ri-creazione; per fare quel passaggio dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dal peccato alla grazia». E «questo è il lavoro del Padre e per questo noi abbiamo lodato il Padre, il Padre che lavora».

 

 

 

ALLA COMUNITÀ DEL PONTIFICIO SEMINARIO CAMPANO DI POSILLIPO
6 maggio 2017

 

Il vostro Seminario rappresenta un caso singolare nell’attuale panorama ecclesiale italiano. Fondato nel 1912 per volontà di San Pio X, come avveniva per diverse istituzioni formative a quel tempo, fu affidato da subito alla direzione dei Padri Gesuiti, che lo hanno guidato attraverso le notevoli trasformazioni avvenute in più di cento anni, rimanendo attualmente l’unico seminario in Italia diretto dalla Compagnia di Gesù.

 

Negli ultimi decenni è andata sempre più crescendo la collaborazione e l’interazione con le Chiese diocesane che, oltre ad inviare i giovani candidati al sacerdozio, si preoccupano di individuare tra i loro presbiteri figure idonee per la formazione. Incoraggio questo cammino significativo e fecondo di comunione ecclesiale, su cui le singole diocesi, con i loro Pastori, stanno investendo notevoli risorse.

 


Una comunità formativa interdiocesana rappresenta un’indubbia opportunità di arricchimento, in virtù delle diverse sensibilità ed esperienze di cui ciascuno è portatore ed è in grado di educare i futuri presbiteri a sentirsi parte dell’unica Chiesa di Cristo, allargando sempre il respiro del proprio sogno vocazionale, con autentico spirito missionario (cfr Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 91), che non indebolisce, anzi consolida e motiva il senso di appartenenza alla Chiesa particolare.

 

In questo tempo, in cui tutti ci sentiamo piccoli, forse impotenti di fronte alla sfida educativa, camminare insieme, in autentico spirito “sinodale”, risulta una scelta vincente, che ci aiuta a sentirci sostenuti, incoraggiati e arricchiti gli uni dagli altri. Questo esercizio di comunione è poi ulteriormente arricchito dall’incontro con la ricca tradizione spirituale e pedagogica ignaziana, che ha negli Esercizi Spirituali un sicuro punto di riferimento, a cui vi siete ispirati per il vostro progetto formativo, mediando così con “fedeltà creativa” le indicazioni che provengono dal magistero della Chiesa. Cari educatori, formare alla spiritualità propria del presbitero diocesano secondo la pedagogia degli Esercizi di Sant’Ignazio è la vostra missione: una sfida ardua, ma al tempo stesso esaltante, che ha la responsabilità di indicare la direzione per il futuro ministero sacerdotale.

 

 

 

INCONTRO PRIVATO CON ALCUNI GESUITI COLOMBIANI
10 settembre 2017

 

«Buonasera, Santità […] vorrei porre una domanda di questo tenore: verso quale orizzonte vuole che motiviamo i nostri giovani di spiritualità ignaziana?».

 

Mi viene da rispondere, per dirla in maniera un po’ intellettuale: metterli in spiritualità di Esercizi. Che cosa voglio dire? Di metterli in movimento, in azione. Oggi la pastorale giovanile dei gruppetti e della pura riflessione non funziona più. La pastorale di giovani quieti non ingrana. Devi mettere il giovane in movimento: sia o non sia praticante, va messo in movimento.

 

Se è credente, guidarlo ti riuscirà più facile. Se non è credente, bisogna lasciare che sia la vita stessa a interpellarlo, ma stando in movimento e accompagnandolo; senza imporgli niente, ma accompagnandolo… in attività di volontariato, in lavori con anziani, in lavori di alfabetizzazione… tutti i modi adatti a un giovane. Se mettiamo il giovane in movimento, lo poniamo in una dinamica in cui il Signore comincia a parlargli e comincia a smuovergli il cuore. Non saremo noi a smuovergli il cuore con le nostre argomentazioni; tutt’al più lo aiuteremo, con la mente, quando il cuore si muove.

 

Ieri, a Medellín, ho raccontato un episodio che per me ha significato molto, perché mi è venuto dal cuore. A Cracovia, durante il pranzo con quindici ragazzi di diverse parti del mondo, insieme all’arcivescovo – in ogni Giornata della gioventù c’è un pranzo del genere –, hanno cominciato a fare domande e si è aperto un dialogo. Un giovane universitario mi ha chiesto: «Alcuni miei compagni sono atei, che cosa devo dire per convincerli?». Questo mi ha fatto notare il senso di militanza ecclesiale che aveva quel ragazzo. La risposta che mi è venuta è stata chiara: «L’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa, davvero l’ultima. Comincia ad agire, invitalo ad accompagnarti e, quando vedrà quello che fai e il modo in cui lo fai, ti domanderà, e a quel punto puoi cominciare a dire qualcosa».

 

Quel che vi dico è di mettere i giovani in movimento, inventare cose che li facciano sentire protagonisti e, poi, li inducano a chiedersi: «Che succede, che cos’è che mi ha cambiato il cuore, perché ne sono uscito contento?». Come negli Esercizi, insomma, quando ci si interroga sulle mozioni interiori. Ovviamente, però, non domandate ai ragazzi quali mozioni hanno avuto, perché non capirebbero niente del vostro linguaggio. Ma lasciate che vi raccontino loro che cosa hanno sentito, e a partire da là coinvolgeteli a poco a poco. Ma per riuscirci – come mi diceva il benemerito padre Furlong, quando mi hanno fatto provinciale – bisogna avere la pazienza di star seduti ad ascoltare chi viene quando pone questioni, e bisogna sapersi però destreggiare quando chi viene ti vuole infilare in discussioni infinite. I giovani stancano, i giovani discutono; allora bisogna avere questa mortificazione continua di starli ad ascoltare sempre e comunque. Ma per me il punto chiave è il movimento.

 

 

 

MEDITAZIONE MATTUTINA
26 ottobre 2017

 

C’è chi pensa che l’abitudine di «fare un esame di coscienza» ogni giorno sia una pratica superata, non per «cristiani aggiornati». Ma «la lotta che ha portato Gesù contro il male non è cosa antica, è cosa molto moderna» perché si trova ogni giorno nel «nostro cuore». E l’esame di coscienza accompagna il cristiano in questa lotta aiutandolo «a fare spazio allo Spirito Santo». È questo il consiglio dato dal Papa nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta giovedì 26 ottobre. Commentando le letture del giorno, il Pontefice ha affrontato il tema della conversione: un «cammino» che richiede lotta e impegno continui.

 

Francesco ha preso anzitutto in esame il Vangelo di Luca (12, 49-53), nel quale «Gesù ci dice che lui è venuto a gettare fuoco sulla terra». Ma, ha precisato, si tratta di un fuoco — quello che lui «getta con la sua parola, con la sua morte e risurrezione, con lo Spirito Santo che ci ha inviato» — che provoca «non le guerre che noi vediamo nei campi di lotta, di battaglia, ma le guerre culturali, le guerre familiari, le guerre sociali, anche la guerra nel cuore, la lotta interiore». Gesù, infatti, «ci chiama a cambiare vita, a cambiare strada, ci chiama alla conversione». È questo il fuoco di cui parla: «un fuoco che non ti lascia tranquillo, non può, ti spinge a cambiare».

 

Anche Paolo, scrivendo ai Romani (6, 19-23) e scusandosi «perché usa un linguaggio umano», spiega «che devono cambiare in tutto, cambiare il modo di pensare: “Tu prima pensavi come un pagano, come un mondano, adesso devi pensare come un cristiano”». Il cuore, «che era mondano, pagano — ha detto il Pontefice — diventa adesso cristiano con la forza di Cristo: cambiare, questa è la conversione». Un cambiamento che coinvolge «il modo di agire: le tue opere devono cambiare». Per spiegarsi meglio, l’apostolo scrive: «Come avete messo le vostre membra al servizio del peccato, adesso mettete le vostre membra al servizio del Signore».

 

Quindi «la conversione coinvolge tutto, corpo e anima». Ed è un cambiamento che non si fa «col trucco»: lo fa «lo Spirito Santo». Certo, «io devo fare del mio perché lo Spirito Santo possa agire», ed è proprio questa la lotta di cui parla Gesù. Perciò il Papa ha sottolineato che «non esistono cristiani tranquilli, che non lottano: quelli non sono cristiani sono dei “tiepidi”, e Gesù ha detto cosa farà con i tiepidi, nel libro dell’Apocalisse. La vita cristiana è una lotta». È un concetto che si ritrova anche nell’Antico testamento, dove «i sapienziali dicevano: “la vita è una milizia sulla terra”, la vita cristiana è una lotta, una lotta che non ti dà tranquillità ma ti dà pace». A tale riguardo Francesco ha spiegato che «dobbiamo imparare a distinguere»: la tranquillità, infatti, «tu puoi trovarla anche con una pastiglia», come quella che si prende per vincere l’insonnia. Invece «non ci sono pastiglie per la pace. Soltanto lo Spirito Santo può darla e questa lotta, questo fuoco ti porta quella pace interiore, quella pace dell’anima che dà la fortezza ai cristiani».

 

Di questa lotta interiore hanno dato testimonianza «tanti martiri nella storia della Chiesa», tanti uomini e donne arrivati perfino «a dare la vita», tanti «cristiani silenziosi, tanti uomini, padri di famiglia, tante donne, madri di famiglia, che portano avanti la loro vita con silenzio, educando i figli, e vanno avanti col lavoro, e cercano di fare la volontà di Dio»

 

Ma, si è chiesto il Pontefice, «come aiutiamo lo Spirito Santo»? Facendo «spazio nel nostro cuore». Ecco allora il consiglio pratico suggerito da Francesco: l’utilità dell«esame di coscienza». Alla fine di ogni giorno bisogna chiedersi: «Cosa è successo nel mio cuore oggi? Cosa ho sentito? Cosa ho fatto? Cosa ho pensato? I miei sentimenti riguardo ai prossimi, alla famiglia, agli amici, ai nemici: cosa ho sentito, questo sentimento è cristiano o non è cristiano? E così andare avanti». E ancora: «Di quale cosa ho parlato, come è andata la mia lingua oggi? Ha parlato bene o ha sparlato degli altri?». Si tratta di una pratica che «ci aiuta a fare spazio, ci aiuta a lottare contro le malattie dello Spirito, quelle che semina il nemico e che sono malattie di mondanità».

 

Qualcuno, però, potrebbe obiettare: «Ma, padre, queste cose sono vecchie, noi adesso siamo moderni, siamo cristiani aggiornati». La risposta è immediata: «Ma, pensa: la lotta che ha portato Gesù contro il diavolo, contro il male non è cosa antica, è cosa molto moderna, è cosa di oggi, di tutti i giorni». Ed è una guerra che si trova «nel cuore nostro, quel fuoco che Gesù è venuto a portarci è nel cuore nostro». Quindi «lascio entrare, lascio che lui mi tocchi e mi cambi».

 

Da ciò si capisce, ha spiegato il Papa, che la conversione non è una decisione presa una tantum — «prima io ero pagano, adesso sono cristiano» — ma è «domandarsi ogni giorno: come sono passato dalla mondanità, dal peccato alla grazia, ho fatto spazio allo Spirito Santo perché lui potesse agire?». Consapevoli che «le difficoltà nella nostra vita non si risolvono annacquando la verità». Da qui la domanda: di fronte alla verità di Gesù che «ha portato fuoco e lotta, cosa faccio io?».

 

A questo punto Francesco ha dato un altro consiglio pratico attingendolo dall’orazione colletta nella quale si chiede «la grazia di un cuore generoso e fedele». E ha spiegato: «Per la conversione ci vogliono ambedue le cose: generosità, che viene sempre dall’amore, e fedeltà, fedeltà alla parola di Dio». La preghiera, poi, continua dicendo: «Così possiamo servirti con lealtà». Bisogna, cioè, «essere leali davanti a Dio, trasparenti, dire la verità, E il cuore del Signore — ha concluso il Pontefice — è tanto buono, tanto grande che davanti a una persona leale, io direi si “indebolisce”, cioè ci ama di più, si avvicina di più e fa il miracolo della conversione».

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.

 

 

 

CONVERSAZIONE CON I GESUITI DEL MYANMAR
29 novembre 2017

 

Grazie per essere venuti. Vedo molte facce giovani, e mi fa piacere. È una cosa buona, perché è una promessa. I giovani hanno futuro, se hanno radici. Se non hanno radici, vanno dove tira il vento. Per cominciare, a me piacerebbe porre una domanda. Ognuno se la rivolga nel suo esame di coscienza: dove sono le mie radici? Ho radici? Le mie radici sono tenaci o sono deboli? È una domanda che ci farà bene. Sant’Ignazio cominciava gli Esercizi Spirituali parlando di una radice: «L’uomo è creato per lodare…». E concludeva con un’altra radice: quella dell’amore. E proponeva una contemplazione per crescere nell’amore. Non c’è vero amore, se non mette radici. Ecco: questa è la mia predica iniziale! Ma adesso vorrei che foste voi a fare qualche domanda. […]

 

Cfr. «Esercizi spirituali» n, 23.

 

Voglio fare una riflessione sulla nostra gente. Alcuni, per vederla, hanno camminato tre giorni, altri hanno messo da parte denaro da sei mesi. Io posso testimoniare che sono stati felici di vederla. Grazie! La mia domanda è questa: molti media hanno detto che la sua visita in Myanmar è una delle più difficili e piene di sfide. È davvero così?

 

Hai detto due cose. Prima hai parlato del Popolo di Dio. Quando ho saputo che queste persone avevano viaggiato e camminato molto, che per venire avevano risparmiato denaro, vi confesso che ho provato una grande vergogna. Il Popolo di Dio ci insegna virtù eroiche. E ho provato vergogna di essere pastore di un popolo che mi supera per virtù, per sete di Dio, per senso di appartenenza alla Chiesa, perché venivano a vedere Pietro. L’ho provata, e ringrazio Dio per avermela fatta provare. E per inciso vi dico che, se c’è una grazia che il gesuita deve chiedere, è quella di una grande vergogna. Sant’Ignazio ce la fa chiedere nella Prima settimana degli Esercizi Spirituali davanti a Cristo crocifisso. Chiedete la grazia della vergogna, per voi e per me. È una grazia! […]

 

Cfr. «Esercizi spirituali», n. 53-54.

 

Quando abbiamo saputo della sua visita, abbiamo cominciato a sentire e pensare che noi siamo nei crocevia, come lei ha appena detto. La sua visita per noi è una spinta in avanti in questo senso. La questione è che spesso lei dice che bisogna avere l’odore delle pecore. Noi qui veniamo da luoghi diversi del Paese, dove avvertiamo come preti questo odore. Alcuni di noi sentono l’odore dei rifugiati. Come possiamo sentire e pensare con la Chiesa, come ci chiede sant’Ignazio, percependo questo odore così intenso che viene dal Popolo di Dio? Come sentire la presenza del Papa?

 


Ai vescovi, poco tempo fa, ho parlato di due odori: odore di pecora e odore di Dio. Noi dobbiamo conoscere l’odore di pecora, per capire, comprendere e accompagnare, e le pecore devono percepire che emaniamo odore di Dio. E questa è la testimonianza. Oggi la missionarietà, grazie a Dio, non passa dal proselitismo. Papa Benedetto XVI l’ha detto chiaramente: la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza. Come potete sentire la presenza del Papa voi che lavorate là? Come possono sentirla i rifugiati? Rispondere non è facile. Ho visitato finora quattro campi di rifugiati. Tre enormi: Lampedusa, Lesbo e Bologna, che si trova nel Nord Italia. E là il lavoro è di vicinanza. A volte non si distingue bene tra un luogo da cui si attende di uscire e un carcere sotto un altro nome. E a volte i campi sono veri campi di concentramento, carceri.

 

In Italia si vive molto intensamente questa realtà dei rifugiati che vengono dall’Africa, perché sono là di fronte, e accadono vere e proprie tragedie. Una persona rifugiata con cui ho parlato mi ha detto di aver impiegato tre anni per arrivare da casa sua a Lampedusa. E in quei tre anni è stata venduta cinque volte. Sul traffico delle giovani che vengono ingannate e vendute ai trafficanti di prostitute a Roma, un anziano sacerdote mi diceva ironicamente che non era sicuro se a Roma ci fossero più sacerdoti o più giovani donne schiavizzate nella prostituzione. E sono ragazze rapite, ingannate, portate da un posto all’altro. La Chiesa diocesana di Roma lavora molto su questo. È un lavoro di liberazione. Poi pensiamo allo sfruttamento dei bambini con il lavoro minorile. Pensiamo ai bambini che hanno dimenticato il gioco e devono lavorare. Ecco la nostra «Terza settimana» degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio: vedere loro è vedere Cristo sofferente e crocifisso.

 

Come io mi avvicino a tutto questo? Sì, io cerco di visitare, parlo chiaro, soprattutto con i Paesi che chiudono le loro frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno dovuto chiudere il cuore. E il nostro lavoro missionario deve raggiungere anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri. Non so che altro dire su questo tema, se non che è un tema grave. Questa sera noi ceneremo. Molti di questi rifugiati hanno per cena un pezzetto di pane. Forse noi prenderemo un dolce. Questo mi richiama un’immagine di Lesbo. Ci sono stato col patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo ortodosso di Atene, Girolamo. Lì erano tutti seduti per file, molto ordinati – erano molte migliaia –, e io camminavo davanti; dietro di me veniva il patriarca Bartolomeo, e dopo di lui l’arcivescovo Girolamo. Stavo salutando, e a un certo momento mi sono accorto che i bambini mi davano la mano, ma guardavano dietro. Mi sono domandato: «Che succede?». Mi sono voltato e ho visto che il patriarca Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le dava ai bambini. Con una mano salutavano me e con l’altra afferravano la caramella. Ho pensato che forse era l’unico dolce che mangiavano da molti giorni.

 

E c’è un’altra immagine di Lesbo che mi ha aiutato molto a piangere davanti a Dio: un uomo di circa trent’anni con tre figlioletti mi ha detto: «Sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Ci amavamo molto. Un giorno sono entrati i terroristi. Hanno visto la sua croce. Le hanno detto di togliersela. Lei ha detto di no ed è stata sgozzata davanti a me. Continuo ad amare mia moglie e i miei figli».

 

Queste cose vanno viste e vanno raccontate. Queste cose non arrivano ai salotti delle nostre grandi città. Abbiamo l’obbligo di denunciare e di rendere pubbliche queste tragedie umane che si cerca di silenziare.

 

Cfr. «Esercizi spirituali», nn. 190-203.

 

 

 


CONVERSAZIONE CON I GESUITI DEL CILE
16 gennaio 2018

 

«Francesco, in diverse occasioni e nella “Evangelii gaudium” ci hai messo in guardia dal pericolo della mondanità. In quali aspetti della nostra vita di gesuiti dovremmo stare attenti a non cadere in questa tentazione della mondanità?».

 

L’allarme sulla mondanità me l’ha fatto scattare l’ultimo capitolo delle Meditazioni sulla Chiesa di Henri de Lubac. Cita un benedettino, dom Anscar Vonier, che parla della mondanità come del peggior male che possa capitare alla Chiesa. Questa cosa mi ha risvegliato il desiderio di capire che cosa sia la mondanità. Certo, sant’Ignazio ne parla negli Esercizi, nel terzo esercizio della prima settimana, là dove chiede di scoprire gli inganni del mondo. Il tema della mondanità è nella nostra spiritualità di gesuiti. Le tre grazie che chiediamo in quella meditazione sono il pentimento dei peccati, cioè il dolore dei peccati, la vergogna e la conoscenza del mondo, del demonio e delle sue cose. Pertanto, nella nostra spiritualità la mondanità è da tenere presente e considerare come una tentazione.

 

Sarebbe superficiale affermare che la mondanità è condurre una vita troppo rilassata e frivola. Queste sono solamente conseguenze. Mondanità è usare i criteri del mondo e seguire i criteri del mondo e scegliere secondo i criteri del mondo. Significa fare discernimento e preferire i criteri del mondo. Pertanto, quello che dobbiamo chiederci è quali sono questi criteri del mondo. E questo è proprio ciò che sant’Ignazio fa chiedere in quel terzo esercizio. E fa fare tre richieste: al Padre, al Signore e alla Vergine, perché ci aiutino a scoprire questi criteri. Ciascuno, dunque, deve mettersi a cercare che cosa nella propria vita è mondano. Non basta una risposta semplice e generale. In che cosa sono mondano io? Questa è la vera domanda. Non basta dire che cos’è la mondanità in generale. Per esempio, non so, un professore di teologia può rendersi mondano se va alla ricerca dell’ultima pensata per essere sempre alla moda: questo è mondano. Ma gli esempi possono essere mille. E bisogna chiedere al Signore di non essere ingannati cercando di discernere quale sia la propria mondanità.

 

«Santo Padre, lei è stato un uomo di riforme. In quali riforme, a parte quella della Curia e della Chiesa, noi come gesuiti possiamo appoggiarla meglio?».

 

Credo che una delle cose di cui la Chiesa oggi ha più bisogno, e questa cosa è molto chiara nelle prospettive e negli obiettivi pastorali dell’Amoris laetitia, è il discernimento. Noi siamo abituati al «si può o non si può». La morale usata nell’ Amoris laetitia è la più classica morale tomista, quella di san Tommaso, non del tomismo decadente come quello che alcuni hanno studiato. Ho ricevuto anch’io, nella mia formazione, la maniera del pensare «si può o non si può», «fin qui si può, fin qui non si può». Non so se ti ricordi [e qui il Papa guarda uno dei presenti] di quel gesuita colombiano che venne a insegnarci morale al «Collegio Massimo»; quando si venne a parlare del sesto comandamento, uno si azzardò a fare la domanda: «I fidanzati possono baciarsi?». Se potevano baciarsi! Capite? E lui disse: «Sì, che lo possono! Non c’è problema! Basta però che mettano in mezzo un fazzoletto». Questa è una forma mentis del fare teologia in generale. Una forma mentis basata sul limite. E ce ne portiamo addosso le conseguenze.

 

Se date un’occhiata al panorama delle reazioni suscitate dall’ Amoris laetitia, vedrete che le critiche più forti fatte contro l’Esortazione sono sull’ottavo capitolo: un divorziato «può o non può fare la Comunione?». E invece l’Amoris laetitia va in una direzione completamente diversa, non entra in queste distinzioni e pone il problema del discernimento. Che era già alla base della morale tomista classica, grande, vera. Allora il contributo che vorrei dalla Compagnia è di aiutare la Chiesa a crescere nel discernimento. Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento. E a noi il Signore ha dato questa grazia di famiglia di discernere. Non so se lo sapete, ma è una cosa che ho già detto in altre riunioni come questa con gesuiti: alla fine del generalato di p. Ledóchowski, l’opera culmine della spiritualità della Compagnia è stata l’Epitome. In essa quello che voi dovevate fare era tutto regolamentato, in un enorme miscuglio tra la Formula dell’Istituto, le Costituzioni e le regole. C’erano perfino le regole del cuoco. Ed era tutto mescolato, senza gerarchizzazione. P. Ledóchowski era molto amico dell’abate generale dei benedettini, e una volta che andò a fargli visita, gli portò quello scritto. Poco tempo dopo, l’abate lo cercò e gli disse: «Padre generale, con questo lei ha ammazzato la Compagnia di Gesù». E aveva ragione, perché l’Epitome toglieva qualsiasi capacità di discernimento.

 

Poi è venuta la guerra. Il p. Janssens ha dovuto guidare la Compagnia nel dopoguerra, e l’ha fatto bene, come poteva, perché non era facile. E poi è venuta la grazia del generalato di p. Arrupe. Pedro Arrupe con il Centro ignaziano di spiritualità, la rivista Christus e l’impulso dato agli Esercizi spirituali ha rinnovato questa grazia di famiglia che è il discernimento. Ha superato l’Epitome, è tornato alla lezione dei padri, a Favre, a Ignazio.

 

In questo va riconosciuto il ruolo della rivista Christus a quel tempo. E poi anche il ruolo del p. Luis González con il suo Centro di spiritualità: è andato in giro per tutta la Compagnia a dare Esercizi spirituali. Andavano aprendo le porte, rinfrescando questo aspetto che oggi vediamo che è cresciuto molto nella Compagnia. Ti direi, ricordando questa storia di famiglia, che c’è stato un momento in cui avevamo perduto – o non so se l’avessimo perduto, diciamo che non si usava molto – il senso del discernimento. Oggi datelo – diamolo! – alla Chiesa, che ne ha tanto bisogno.

 

 

 

CONVERSAZIONE CON I GESUITI DEL PERÙ
19 gennaio 2018

 

«Vorrei che ci dicesse qualche parola su un tema che provoca molta desolazione nella Chiesa, e in modo speciale tra i religiosi e nel clero, cioè il tema degli abusi sessuali. Siamo molto segnati da questi scandali. Che cosa può dirci a questo riguardo? Una parola di incoraggiamento…».

 

Ieri ne ho parlato ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose cileni nella cattedrale di Santiago. È la desolazione più grande che la Chiesa sta subendo. Questo ci spinge alla vergogna, ma bisogna pure ricordare che la vergogna è anche una grazia molto ignaziana, una grazia che sant’Ignazio ci fa chiedere nei tre colloqui della prima settimana. E quindi prendiamola come grazia e vergogniamoci profondamente. Dobbiamo amare una Chiesa con le piaghe. Molte piaghe…

 

Ti racconto un fatto. Il 24 marzo, in Argentina è la memoria del colpo di Stato militare, della dittatura, dei desaparecidos… e ogni 24 marzo la Plaza de Mayo si riempie per ricordarlo. In uno di quei 24 marzo sono uscito dall’arcivescovado e sono andato a confessare le monache carmelitane. Al ritorno, ho preso la metropolitana, e sono sceso non a Plaza de Mayo, ma sei isolati più in là. La piazza era piena… e ho percorso quegli isolati per entrare dal lato. Mentre stavo per attraversare la strada, c’era una coppia con un bambino di due o tre anni, più o meno, e il bambino correva avanti. Il papà gli ha detto: «Vieni, vieni, vieni qua… Attento ai pedofili!». Che vergogna ho provato! Che vergogna! Non si sono resi conto che ero l’arcivescovo, ero un prete e… che vergogna!

 

A volte si tirano fuori «premi di consolazione», e qualcuno perfino dice: «D’accordo, guarda le statistiche… il… non so… 70% dei pedofili si trova nell’ambito familiare, dei conoscenti. Poi nelle palestre, nelle piscine. La percentuale dei pedofili che sono preti cattolici non raggiunge il 2%, è dell’1,6%. Non è poi tanto…». Ma è terribile anche se fosse uno soltanto di questi nostri fratelli! Perché Dio l’ha unto per santificare i bambini e i grandi, e lui, invece di santificarli, li ha distrutti. È orribile! Bisogna ascoltare che cosa prova un abusato o un’abusata! Di venerdì – a volte lo si sa e a volte non lo si sa – mi incontro abitualmente con alcuni di loro. In Cile pure ho avuto un incontro. Siccome il loro processo è durissimo, restano annientati. Annientati!

 

Per la Chiesa è una grande umiliazione. Mostra non soltanto la nostra fragilità, ma anche, diciamolo chiaramente, il nostro livello di ipocrisia. Sui casi di corruzione, nel senso dell’abuso di tipo istituzionale, è singolare il fatto che vi siano varie Congregazioni, relativamente nuove, i cui fondatori sono caduti in questi abusi. Sono casi pubblici. Papa Benedetto ha dovuto sopprimere una Congregazione maschile numerosa. Il fondatore aveva seminato queste abitudini. Era una Congregazione che aveva anche il ramo femminile, e anche la fondatrice aveva seminato queste abitudini. Lui abusava di religiosi giovani e immaturi. Benedetto aveva avviato il processo al ramo femminile. A me è toccato sopprimerlo. Voi qui avete molti casi dolorosi. Ma questo è curioso: il fenomeno dell’abuso ha toccato alcune Congregazioni nuove, prospere.

 

L’abuso in queste Congregazioni è sempre frutto di una mentalità legata al potere, che va guarita nelle sue radici maligne. E aggiungo, anzi, che ci sono tre livelli di abuso che vanno insieme: abuso di autorità – con ciò che significa mescolare il foro interno e quello esterno –, abuso sessuale, e pasticci economici.

 

Il denaro c’è sempre di mezzo: il diavolo entra dal portafoglio. Ignazio mette il primo gradino delle tentazioni del demonio proprio nella ricchezza… poi vengono la vanità e la superbia, ma per prima c’è la ricchezza. Nelle Congregazioni nuove che sono cadute in questo problema degli abusi spesso i tre livelli si trovano insieme.

 

Perdonando la mancanza di umiltà, ti suggerirei di leggere quello che ho detto ai cileni, che è più pensato e più ragionato di quanto potrebbe venirmi da dire ora a braccio.

 

Cfr. «Esercizi spirituali», n. 63.

 

«Ci aiuti in questo processo di discernimento, che è della Compagnia universale. Il Proposito generale p. Sosa ci chiama a riflettere verso dove la Compagnia deve andare di questi tempi, considerando le nostre debolezze e le nostre forze. Lei ha una visione universale, ci conosce bene, sa quale potrebbe essere il nostro contributo alla Chiesa universale. Potrebbe aiutarci dicendo, per esempio, come vede che lo Spirito adesso stia muovendo la Chiesa verso il futuro, verso l’avvenire. Verso dove dovremmo seguire i sentieri dello Spirito, da gesuiti, nel luogo in cui siamo – e non soltanto nella provincia del Perù – per mantenerci al suo servizio. Alcune linee che potrebbero trasformarsi in parte del nostro programma…».

 

Grazie. Ti rispondo con una parola sola. Sembrerà che non dico nulla, e invece dico tutto.

 

E questa parola è «Concilio». Riprendete in mano il Concilio Vaticano II, rileggete la Lumen gentium. Ieri con i vescovi cileni – o l’altro ieri, non so più che giorno è oggi! – li esortavo alla declericalizzazione. Se c’è una cosa molto chiara, è la coscienza del santo popolo fedele di Dio, infallibile in credendo, come ci insegna il Concilio. Questo porta avanti la Chiesa. La grazia della missionarietà e dell’annuncio di Gesù Cristo ci viene data con il battesimo. Da lì possiamo andare avanti…

 

Non bisogna mai dimenticare che l’evangelizzazione viene fatta dalla Chiesa come popolo di Dio. Il Signore vuole una Chiesa evangelizzatrice, lo vedo con chiarezza. È quello che mi è venuto dal cuore e con semplicità nei pochi minuti in cui ho parlato nelle Congregazioni generali previe al Conclave. Una Chiesa che va verso fuori, una Chiesa che esce ad annunciare Gesù Cristo. Dopo o nel momento stesso in cui lo adora e si riempie di Lui. Uso sempre un esempio legato all’Apocalisse, dove leggiamo: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, entrerò». Il Signore è fuori e vuole entrare. A volte però il Signore è dentro e bussa affinché lo lasciamo uscire! A noi il Signore sta chiedendo di essere Chiesa fuori, Chiesa in uscita. Chiesa fuori. Chiesa ospedale da campo… Ah, le ferite del popolo di Dio! A volte il popolo di Dio è ferito da una catechesi rigida, moralista, del «si può o non si può», o da un’assenza di testimonianza.

 

Una Chiesa povera per i poveri! I poveri non sono una formula teorica del partito comunista. I poveri sono il centro del Vangelo. Sono il centro del Vangelo! Non possiamo predicare il Vangelo senza i poveri. Allora ti dico: è su questa linea che sento che ci sta portando lo Spirito. E ci sono forti resistenze. Ma devo anche dire che per me il fatto che nascano resistenze è un buon segno. È il segno che si va per la via buona, che la strada è questa. Altrimenti il demonio non si affannerebbe a fare resistenza.

 

Ti direi che questi sono i criteri: la povertà, la missionarietà, la coscienza di popolo fedele di Dio… In America Latina, in particolare, dovreste chiedervi: «Ma dov’è che il nostro popolo è stato creativo?». Con alcune deviazioni, sì, ma è stato creativo nella pietà popolare. E perché il nostro popolo è stato capace di essere così creativo nella pietà popolare? Perché ai chierici non interessava, e allora lasciavano fare… e il popolo andava avanti…

 

E poi, sì, quello che la Chiesa oggi chiede alla Compagnia – questo l’ho già detto dappertutto, e Spadaro, che pubblica queste cose, si è già stancato di scriverlo – è di insegnare con umiltà a discernere. Sì, questo ve lo chiedo ufficialmente da Pontefice. In generale, soprattutto noi che rientriamo nella cornice della vita religiosa, sacerdoti, vescovi, a volte dimostriamo poca capacità di discernere, non lo sappiamo fare, perché siamo stati educati in un’altra teologia, forse più formalista. Ci fermiamo al «si può o non si può», come dicevo anche ai gesuiti cileni a proposito delle resistenze all’ Amoris laetitia.  Qualcuno riduce tutto il risultato di due Sinodi, tutto il lavoro fatto, al «si può o non si può». Aiutateci, dunque, a discernere. Certo, non può insegnare a discernere chi non sa discernere. E per discernere si deve entrare in esercizi, bisogna esaminarsi. Bisogna cominciare sempre da se stessi.


 

 

 

SANTA MESSA E BENEDIZIONE DEI PALLI PER I NUOVI ARCIVESCOVI METROPOLITI
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
29
giugno 2018

 

Davanti a questo annuncio così inatteso, Pietro reagisce: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22) e si trasforma immediatamente in pietra d’inciampo sulla strada del Messia; e credendo di difendere i diritti di Dio, senza accorgersi si trasformava in suo nemico (lo chiama “Satana”, Gesù). Contemplare la vita di Pietro e la sua confessione significa anche imparare a conoscere le tentazioni che accompagneranno la vita del discepolo. Alla maniera di Pietro, come Chiesa, saremo sempre tentati da quei “sussurri” del maligno che saranno pietra d’inciampo per la missione. E dico “sussurri” perché il demonio seduce sempre di nascosto, facendo sì che non si riconosca la sua intenzione, «si comporta come un falso nel volere restare occulto e non essere scoperto» (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 326).

 

 

 

MEDITAZIONE MATTUTINA
4
settembre 2018

 

Fare tutte le sere l«esame di coscienza» come una preghiera, per individuare se a muoverci nella giornata è stato «lo spirito di Dio o lo spirito del mondo», è un’esercizio decisivo nel nostro «combattimento spirituale» che ci porta «a capire il cuore» e «il senso di Cristo». È il suggerimento che Papa Francesco ha proposto nella messa celebrata martedì 4 settembre a Santa Marta, ricordando che «il cuore dell’uomo è come un campo di battaglia» dove si affrontano di continuo «lo spirito di Dio, che ci porta alle opere buone, alla carità, alla fraternità», e «lo spirito del mondo che» invece «ci porta verso la vanità, l’orgoglio, la sufficienza, il chiacchiericcio».

 

«Nella prima lettura — ha fatto subito presente, riferendosi al brano della prima lettera ai Corinzi (2, 10-16) — l’apostolo Paolo Insegna ai Corinzi la strada per avere il pensiero di Cristo, il sentimento di Cristo, per avere quell’atteggiamento che era quello di Cristo». E «la strada è quella del lasciare fare in noi lo Spirito Santo ricevuto». San Paolo Infatti scrive che «voi tutti, noi tutti abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio».

 

«È lo Spirito Santo che ti porta avanti nella vita — ha spiegato Francesco — e ti porta a quello scopo di conoscere Gesù, di avere gli stessi sentimenti di Gesù». In realtà, ha affermato, «noi possiamo studiare tanto, studiare la Bibbia, studiare storia, studiare teologia, ma quella non è la strada per arrivare ai sentimenti di Gesù: aiuta, aiuta tanto, ma la strada vera è lasciarsi portare avanti dallo Spirito, dallo Spirito Santo». Ed «è proprio lo Spirito Santo — ha aggiunto il Pontefice — che ci porta avanti al cuore di Gesù, a capire chi è Gesù, come attua Gesù, cosa vuole Gesù, qual è la volontà di Gesù. A capire il cuore di Gesù».

 

La questione è: «come possiamo andare?». San Paolo afferma che «l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito». Dunque, ha spiegato Francesco, «abbiamo bisogno dello Spirito Santo per questo cammino, questo cammino cristiano». Sempre nella lettera ai Corinzi, l’apostolo spiega anche che «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio».

 

In effetti, ha rilanciato il Papa, «ci sono due spiriti, due modalità di pensare, di sentire, di agire: quella che mi porta allo Spirito di Dio e quella che mi porta allo spirito del mondo». E «questo succede nella nostra vita: noi tutti abbiamo questi due “spiriti”, diciamo così». C’è «lo spirito di Dio, che ci porta alle opere buone, alla carità, alla fraternità, a adorare Dio, a conoscere Gesù, a fare tante opere buone di carità, a pregare». Ma c’è anche «l’altro spirito del mondo, che ci porta verso la vanità, l’orgoglio, la sufficienza, il chiacchiericcio: tutta un’altra strada».

 

«Il nostro cuore, diceva un santo, è come un “campo di battaglia, un campo di guerra dove questi due spiriti lottano” e chiamava questo il “combattimento spirituale”» ha ricordato il Pontefice. «Nella vita cristiana si deve combattere per lasciare spazio allo spirito di Dio e cacciare via — come Gesù ha cacciato questo demonio — lo spirito del mondo» ha spiegato, riferendosi al passo evangelico di Luca (4, 31-37) proposto oggi dalla liturgia.

 

A questo proposito Francesco ha suggerito «una preghiera bella che noi possiamo fare tutti i giorni, prima di andare a letto, guardare un po’ la giornata» e domandarsi: «Ma quale spirito ho io oggi seguito? Lo spirito di Dio o lo spirito del mondo?». E il Papa ha fatto notare che «questo si chiama fare l’esame di coscienza: sentire nel cuore cosa è successo in questa guerra interiore, e come io mi sono difeso dallo spirito del mondo che mi porta alla vanità, alle cose basse, ai vizi, alla superbia, a tutto questo». Dunque, «come mi sono difeso dalle tentazioni concrete?». Si devono «individuare le tentazioni». E «questo si fa come preghiera, prima di andare a letto, oggi: quali sentimenti ho avuto. Individuare qual è lo spirito che mi ha spinto a quel sentimento, mi ha ispirato quel sentimento: è lo spirito del mondo o lo spirito di Dio?».

 

Facendo l’esame di coscienza con questa preghiera serale, ha affermato il Pontefice «tante volte, se siamo onesti, troveremo che “oggi sono stato invidioso, ho avuto cupidigia, ho fatto questo”». E «questo è lo spirito del mondo». Ma, ha insistito Francesco, è opportuno «individuarli» questi sentimenti, «perché questo è vero: tutti noi abbiamo dentro questa lotta, ma se noi non capiamo come funzionano questi due spiriti, come agiscono, non riusciamo ad andare avanti con lo spirito di Dio che ci porta a conoscere il pensiero di Cristo, il senso di Cristo».

 

In realtà, ha fatto notare il Papa, «è molto semplice: abbiamo questo gran dono, che è lo spirito di Dio, ma siamo fragili, siamo peccatori e abbiamo anche la tentazione dello spirito del mondo». E «in questo combattimento spirituale, in questa guerra dello spirito, bisogna essere vincitori come Gesù, ma è necessario sapere quale strada si percorre». Proprio «per questo è tanto utile l’esame di coscienza, alla sera rivedere la giornata e dire: “sì, oggi sono stato tentato qui, ho vinto qui, lo Spirito Santo mi ha dato questa ispirazione”». Insomma, si tratta di «conoscere cosa succede nel cuore».

 

E, ha messo in guardia il Pontefice, «se noi non facciamo questo, se noi non sappiamo cosa succede nel nostro cuore — e questo non lo dico io, lo dice la Bibbia — siamo come gli “animali che non capiscono nulla”, vanno avanti con l’istinto». Però «noi non siamo animali, siamo figli di Dio, battezzati con il dono dello Spirito Santo». E «per questo — ha concluso Francesco — è importante capire cosa è successo oggi nel mio cuore. Il Signore ci insegni a fare sempre, tutti i giorni, l’esame di coscienza».

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.

 

 

 

INCONTRO CON I GESUITI LITUANI
23 settembre 2018

 

«Vorrei chiedere un favore per la nuova residenza dei gesuiti a Riga. È una casa di esercizi spirituali. Il patrono è san Pietro Favre. Un fratello gesuita di Varsavia ne ha dipinto il ritratto. Le chiediamo di benedirlo e di dare la sua benedizione alla nostra opera, che è molto importante anche dal punto di vista ecumenico. Infatti, come le diceva il provinciale, pure i luterani della Lettonia sono interessati agli Esercizi. L’arcivescovo luterano di Riga ha fatto il mese ignaziano per intero in Inghilterra e poi ha rifatto gli Esercizi in Spagna, a Manresa. Per lui gli Esercizi sono molto importanti. E questo è anche un buon segno ecumenico in un tempo di laicismo come il nostro».

 

Sì, anch’io conosco un gesuita che fa gli Esercizi insieme ai luterani. È bene che sia Favre a essere protettore della casa: è l’uomo del dialogo, dell’ascolto, della vicinanza, del cammino. Era diverso dal Canisio. Non era l’uomo del confronto, della disputa. Aveva quella dolcezza spirituale che si comprende bene leggendo il suo Memoriale. E lavorava con l’aiuto degli angeli. Pregava il suo angelo di parlare agli angeli delle persone con le quali aveva appuntamento. Una bella “mafia” di angeli! Il cardinale Arborelius di Stoccolma dà ritiri ai pastori luterani. Ricordiamoci di questo: il dialogo è per sommare, non per sottrarre. Vi auguro davvero che la vostra opera di Esercizi vada per il meglio. I giovani che sentono il desiderio di fare gli Esercizi fanno un’esperienza bellissima. Avanti, dunque!


 

«Santo Padre, lei ha detto che dobbiamo scendere per strada, dove c’è la gente. Ha detto che la Chiesa è un ospedale da campo. Ha detto che non dobbiamo avere paura del caos. E il mondo oggi sembra nel caos. Come possiamo affrontarlo senza avere paura?».

 

Guarda, se tu nel caos ci entri da solo, è meglio che tu abbia paura, perché finirai male. Ma se tu entri con la grazia del colloquio spirituale con il tuo Provinciale, con la tua comunità, se lo fai come missione e con il Signore, allora quella paura che provi viene dal cattivo spirito. Hai ragione, oggi c’è caos. È la cattedra di fuoco e fumo di cui sant’Ignazio parla nella meditazione delle due bandiere. Ma con il Signore non c’è da aver paura. Con il Signore, però, non con i propri capricci!

 

Dio è forte, Dio è più forte. Lo dicevo prima, ricordando Hugo Rahner: bisogna avere la capacità di entrare nei due campi, anche in quello del nemico dell’uomo, nel caos. Ne approfitto perché mi dai lo spunto per parlare di una cosa che avevo in mente di dirvi oggi. Vi dicevo di entrare nel caos o nelle situazioni difficili non da soli, ma con il Signore, e nel dialogo con il superiore e con la comunità. E qui viene il tema del «rendiconto di coscienza». Non abbiate paura! Il Provinciale è un fratello. Forse domani toccherà a lui fare il rendiconto di coscienza a te. La grazia in questo rendiconto è che il superiore e il suddito sono due fratelli che si comunicano per servire meglio il Signore. Non è una sessione di domande e risposte. Il Provinciale deve coinvolgersi nella vita dell’altro che ascolta. E pure il gesuita che fa il rendiconto deve coinvolgersi nella vita del suo superiore. È un dialogo di interazione nel quale si sciolgono tutti i conflitti con i superiori. E la Compagnia diventa corpo per affrontare il caos. Sempre avanti in comunità e fratellanza.

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 140.

 

 

 

ALLA COMUNITÀ DEL COLLEGIO INTERNAZIONALE DEL GESÙ DI ROMA
3
dicembre 2018

 

Cari fratelli, buongiorno!

 

Grazie per la vostra visita, sono contento. Voi ricordate quest’anno il 50° del Collegio del Gesù, aperto per iniziativa di Padre Arrupe nel 1968. Nel cinquantesimo anno, quello del giubileo, la Scrittura dice che «ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Ma nessuno deve fare le valigie! Tutti, però, siete chiamati a tornare nel “luogo” che vi è proprio, a «desiderare ciò che è essenziale e originario» (S. Pietro Favre, Memoriale, 63), a rivisitare quella famiglia in cui Dio vi ha rigenerato, dove avete professato l’appartenenza a Lui. Dio vi ha fondati come Gesuiti: questo giubileo è un momento di grazia per fare memoria e sentirvi con la Chiesa, in una Compagnia e in un’appartenenza che hanno un nome: Gesù.

 

Fare memoria vuol dire fondarsi nuovamente in Gesù, nella sua vita. Significa ribadire un “no” chiaro alla tentazione di vivere per sé stessi; riaffermare che, come Gesù, esistiamo per il Padre (cfr Gv 6,57); che, come Gesù, dobbiamo vivere per servire, non per essere serviti (cfr Mc 10,45). Fare memoria è ripetere con l’intelligenza e la volontà che alla vita del gesuita basta la Pasqua del Signore. Non serve altro. Farà bene riprendere la seconda settimana degli Esercizi, per rifondarsi sulla vita di Gesù, in cammino verso la Pasqua. Perché formarsi è anzitutto fondarsi. Su questo mi permetto di consigliarvi, di tornare sul Colloquio del servizio per essere come Gesù, per imitare Gesù, che svuotò sé stesso, si annientò o obbedì fino alla morte; il Colloquio che ti porta fino al momento di chiedere con insistenza calunnie, persecuzioni, umiliazioni. Questo è il criterio, fratelli! Se qualcuno non riesce in questo, ne parli con il padre spirituale. Imitare Gesù. Come Lui, su quella strada che Paolo ci dice in Filippesi 2,7, e non avere paura di chiederlo, perché è una beatitudine: “Beati sarete quando diranno cose brutte di voi, vi calunnieranno, vi perseguiteranno…”. Questa è la vostra strada: se voi non riuscite a fare quel Colloquio con il cuore e dare tutta la vita, convinti e chiedere questo, non sarete ben radicati.


 

Fondarsi, dunque, è il primo verbo che vorrei lasciarvi. Ne scriveva San Francesco Saverio, che oggi festeggiamo: «Vi prego, in tutte le vostre cose, di fondarvi totalmente in Dio» (Lettera 90 da Kagoshima). In tal modo, aggiungeva, non c’è avversità a cui non si possa essere preparati. Voi abitate la casa dove Sant’Ignazio visse, scrisse le Costituzioni e inviò i primi compagni in missione per il mondo. Vi fondate sulle origini. È la grazia di questi anni romani: la grazia del fondamento, la grazia delle origini. E voi siete un vivaio che porta il mondo a Roma e Roma nel mondo, la Compagnia nel cuore della Chiesa e la Chiesa nel cuore della Compagnia.

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 146-147.

 

 

 

DIALOGO CON I GESUITI DELL’AMERICA CENTRALE
26 gennaio 2019

 

Tra poco alcuni di noi faranno la professione dei voti. Che cosa può dirci?

 

Che i voti sono perpetui! Non sono perpetui per il superiore che li riceve, ma per voi che li pronunciate, sì. E su questo non si scherza. Se qualcuno non si sente bene, non li faccia, si prenda altro tempo. Provarci? No, niente affatto. Da parte tua, sono perpetui, per tutta la vita.

 

Giocarsi la vita: è una delle cose più arrischiate che ci siano oggi. Infatti, siamo in un’epoca in cui il provvisorio prevale sul definitivo. Sempre. […] Tutto c’è finché dura. Finché dura la consolazione, finché mi trattano bene…

 

E a volte la vita non ti tratta bene, ti tratta come un delinquente. E se tu ami Colui che è stato trattato come un delinquente, non puoi fare altro che sopportare. È definitivo, con tutto quello che comporta la «terza settimana» degli Esercizi spirituali[9]. Con tutto quello che significa il colloquio delle «Due bandiere»[10], che non è una trovata cavalleresca di Ignazio, ma è la sua esperienza. Il che implica chiedere di essere umiliati, di subire umiliazioni, per amore di Cristo, senza averne dato motivo. I voti sono perpetui, con uno stile di vita che dev’essere quello degli Esercizi, secondo il quale ti possono mandare a fare qualsiasi lavoro, qualsiasi cosa: tanto insegnare religione ai bambini quanto insegnare all’università, o fare, che so, l’equilibrista in un circo… La Compagnia può mandarti a fare qualsiasi cosa. È questo che intendo per definitivo. Il tempo, definitivo; lo stile, quello degli Esercizi; la disponibilità, a qualsiasi cosa. Per amare e servire, come cantavate all’inizio. Non dicevate per simpatizzare e dare una mano. Amare e servire è il nucleo. Non spaventatevi! Coraggio.

 

[9] Si tratta della terza tappa degli Esercizi spirituali, nella quale si contempla il mistero della Passione del Signore.

[10] Si tratta di una meditazione della «seconda settimana» degli Esercizi, prima di passare alla elezione dello stato di vita. Ignazio chiede di meditare su «come Cristo chiama e vuole tutti sotto la sua bandiera, e Lucifero al contrario sotto la sua», anche «vedendo il luogo», cioè immaginando la «regione di Gerusalemme come un grande campo, dove il sommo capitano generale dei buoni è Cristo nostro Signore; e nella regione di Babilonia com’è l’altro campo, dove il capo dei nemici è Lucifero». L’obiettivo è quello di «chiedere conoscenza degli inganni del cattivo capo e aiuto per guardarmene; e conoscenza della vita vera che il Sommo e Vero Capitano indica e grazia per imitarlo».

 

 

 

CONVERSAZIONE CON I GESUITI DI ROMANIA
31
maggio 2019

 

«Ci parli delle consolazioni che la stanno accompagnando».

 

Mi piace questo linguaggio! Non mi chiedi che cosa possiamo fare qua o là. Mi chiedi delle consolazioni e delle desolazioni. La precedente era una domanda sulle desolazioni, questa è una domanda sulle consolazioni. L’esame di coscienza deve dare conto di questi moti dell’anima. Quali sono le vere consolazioni? Quelle nelle quali il passo del Signore si fa presente. Dove io trovo le più grandi consolazioni? Nella preghiera il Signore si fa sentire. E poi le trovo con il popolo di Dio. In particolare con gli ammalati e i vecchietti, che sono un tesoro. Andate a visitare gli anziani! E poi con i giovani che sono inquieti e cercano testimonianze vere. Il popolo di Dio capisce meglio di noi le cose. Il popolo di Dio ha un senso, il sensus fidei, che ti corregge la linea e ti mette sulla strada giusta. Ma dovete sentire le cose che mi dice la gente quando la incontro nelle udienze! Hanno fiuto per capire le situazioni. […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 32-43.

 

«Sono parroco a Satu Mare, nel nord del Paese. Noi abbiamo la parrocchia in città e poi ci sono due villaggi quasi nel bosco. Quel che mi fa più male è l’indifferenza».

 

Una delle grandi tentazioni di oggi è l’indifferenza. Viviamo la tentazione dell’indifferenza, che è la forma più moderna del paganesimo. Nell’indifferenza tutto è centrato sull’io. Non c’è capacità di prendere posizione su ciò che accade. Uno dei fotografi dell’Osservatore Romano, un artista, ha fatto una foto dal titolo «Indifferenza». Nell’immagine si vede una signora molto ben vestita, con una pelliccia e un bel cappello, che esce in una notte d’inverno da un ristorante di lusso. E poi nella foto accanto a lei c’è una signora per terra che chiede l’elemosina. Ma la signora guarda da un’altra parte. A me questa fotografia ha fatto tanto pensare. È quella che noi in spagnolo chiamiamo la calma chicha. Come dite voi in italiano? Calma piatta. Sant’Ignazio ci dice che se c’è indifferenza e non ci sono né consolazioni né desolazioni non va bene. Se nulla si muove, si deve guardare che cosa succede. E anche a noi farà bene aprire gli occhi sulla realtà e guardare ciò che accade. Grazie per la tua domanda: significa che non sei un indifferente!

 

Torniamo agli Esercizi spirituali, e cerchiamo di capire perché viviamo un’indifferenza interiore senza consolazioni né desolazioni. Perché in quella parrocchia o in quella situazione sociale c’è indifferenza? Come posso io aiutare a smuovere le acque? L’indifferenza è una forma di cultura della mondanità spirituale. Attenzione però a non confonderla con quella che per sant’Ignazio è una «indifferenza buona». L’indifferenza buona è quella che bisogna avere davanti alle scelte di vita e che ci permette di non essere vinti da passioni forti, ma passeggere e volatili, che ci confondono. Ci sono indifferenze diverse: quella buona e quella cattiva.

 

A me preoccupa la cultura dell’indifferenza cattiva, dove tutto è calma piatta, dove non si reagisce alla storia, quando non si ride e non si piange. Una comunità che non sa ridere e non sa piangere non ha orizzonti. È chiusa nei muri dell’indifferenza.

 

«Indifferenza cattiva»: cfr «Esercizi spirituali», n. 14.

«Indifferenza buona»: cfr «Esercizi spirituali», n. 23.

 

 

 

DIALOGO CON I GESUITI DEL MOZAMBICO
5 settembre 2019

 

[…] un pensiero sulle preferenze apostoliche della Compagnia[2] e un consiglio su come viverle in Mozambico

 

Non è facile ricostruire una società divisa. Voi vivete in un Paese che ha vissuto lotte tra fratelli. Penso che, ad esempio, la preferenza apostolica che riguarda gli Esercizi spirituali possa aiutare molto in questo contesto. Si possono dare Esercizi a persone impegnate nei diversi settori della società e così renderle più adatte a svolgere il loro compito per unire e riconciliare. Si tratta dell’esperienza del discernimento spirituale che guida all’azione.

 


Serve un adeguato accompagnamento, specialmente se nella società e nella nazione c’è bisogno di unità, di riconciliazione. Sappiamo che, a volte, l’ottimo è nemico del bene, e in un momento di riconciliazione vanno inghiottiti molti rospi. In questo processo, si deve insegnare ad avere pazienza. Serve la pazienza del discernimento per andare all’essenziale e mettere da parte l’accidentale. Ci vuole davvero tanta pazienza, a volte! Poi, però, serve anche insegnare i contenuti, cioè la dottrina sociale della Chiesa. Ma attenzione: in ogni caso il gesuita non deve dividere. C’è bisogno di riconciliazione nella società del Mozambico: unire, unire, unire, unire, unire, avere pazienza, aspettare. Mai fare un passo per dividere. Noi siamo uomini del tutto, non della parte.

 

Tu lavori nell’apostolato educativo, e stai in mezzo ai giovani. Il tuo lavoro è importante e impegnativo. I giovani hanno buona volontà, ma possono essere una facile preda dell’inganno, dell’impazienza. È necessario essere vicini ai giovani, dare loro spazio perché possano discernere ciò che accade nel loro cuore. La formazione considera insieme le idee e i sentimenti. Per agire bene bisogna sempre considerare le idee e i sentimenti che si provano. Ad esempio, bisogna aiutare i più giovani a riconoscere quando vivono nella rassegnazione, e quindi nella stagnazione. E anche a riconoscere quando invece vivono una sana inquietudine. Insomma, serve un’opera di discernimento spirituale, di accompagnamento per il bene della società.

 

[2] Un ampio processo di ascolto e di discernimento ha permesso alla Compagnia di Gesù di presentare al Santo Padre quattro preferenze apostoliche universali, che sono le seguenti: 1) Indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi spirituali e il discernimento. 2) Camminare insieme ai poveri, agli esclusi del mondo, feriti nella propria dignità, in una missione di riconciliazione e di giustizia. 3) Accompagnare i giovani nella creazione di un futuro di speranza. 4) Collaborare nella cura della «casa comune».

 

 

 

CAPPELLA PAPALE IN SUFFRAGIO
DEI CARDINALI E DEI VESCOVI DEFUNTI NEL CORSO DELL'ANNO
4
novembre 2019

 

Infine, un terzo stimolo in vista della risurrezione. Lo prendo dagli Esercizi spirituali, dove Sant’Ignazio suggerisce, prima di prendere una decisione importante, di immaginarsi al cospetto di Dio alla fine dei giorni. Quella è la chiamata a comparire non rimandabile, il punto di arrivo per tutti, per tutti noi. Allora, ogni scelta di vita affrontata in quella prospettiva è ben orientata, perché più vicina alla risurrezione, che è il senso e lo scopo della vita. Come la partenza si calcola dal traguardo, come la semina si giudica dal raccolto, così la vita si giudica bene a partire dalla sua fine, dal suo fine. Sant’Ignazio scrive: «Considerando come mi troverò il giorno del giudizio, pensare come allora vorrei aver deciso intorno alla cosa presente; e la regola che allora vorrei aver tenuto, prenderla adesso» (Esercizi spirituali, 187). Può essere un esercizio utile per vedere la realtà con gli occhi del Signore e non solo con i nostri; per avere uno sguardo proiettato sul futuro, sulla risurrezione, e non solo sull’oggi che passa; per compiere scelte che abbiano il sapore dell’eternità, il gusto dell’amore.

 

 

 

DISCORSO AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO DEL SEGRETARIATO
PER LA GIUSTIZIA SOCIALE E L'ECOLOGIA DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
7
novembre 2019

 

I poveri, luogo d’incontro con il Signore

 

Ogni anno la liturgia ci invita a contemplare Dio nel candore di un bambino escluso, che veniva tra la sua gente, ma non fu accolto (cfr. Gv 1, 11). Secondo sant’Ignazio, un’ancella — un’ancella, una persona, una giovane che serve — assiste la Santa Famiglia (cfr. Esercizi Spirituali, nn. 114). Insieme a lei, Ignazio ci esorta a essere anche noi lì presenti, «mi faccio come un piccolo e indegno servitorello guardandoli, contemplandoli e servendoli nelle loro necessità» (Ibid). Questo non è poesia né pubblicità, questo Ignazio lo sentiva. E lo viveva.

 


Questa contemplazione attiva di Dio, di Dio escluso, ci aiuta a scoprire la bellezza di ogni persona emarginata. Nessun servizio sostituisce l’«apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede» (Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 199).

 

Nei poveri voi avete trovato un luogo privilegiato d’incontro con Cristo. È questo un dono prezioso nella vita del seguace di Cristo: ricevere il dono di incontrarlo tra le vittime e i poveri.

 

L’incontro con Cristo tra i suoi prediletti affina la nostra fede. Così successe nel caso della Compagnia di Gesù, la cui esperienza con gli ultimi ha approfondito e rafforzato la fede. «La nostra fede si è fatta più pasquale, più compassionevole, più tenera, più evangelica nella sua semplicità» (Congregazione Generale 34 della Compagnia di Gesù, 1995, d. 2, n. 1), in modo particolare nel servizio dei poveri.

 

Voi avete vissuto una vera trasformazione personale e corporativa nella contemplazione silenziosa del dolore dei vostri fratelli. Una trasformazione che è una conversione, un tornare a guardare il volto del crocifisso, che c’invita ogni giorno a restare accanto a lui e a deporlo dalla croce.

 

Non smettete di offrire questa familiarità con i vulnerabili. Il nostro mondo spezzato e diviso ha bisogno di costruire ponti affinché l’incontro umano permetta a ognuno di noi di scoprire negli ultimi il bel volto del fratello, nel quale ci riconosciamo, e la cui presenza, pur senza parole, esige nel suo bisogno la nostra cura e la nostra solidarietà.

 

 

 

PRESENTAZIONE DEGLI SCRITTI DI M. A. FIORITO

13 dicembre 2019

 

Che cosa si domanderebbe Fiorito riguardo a un’edizione dei suoi Escritos come questa? Forse in primo luogo se ne valesse la pena, dato che non è un autore conosciuto, salvo forse nell’ambito ristretto degli studiosi di sant’Ignazio. Ma credo concorderebbe sul fatto che i suoi scritti possono interessare quanti accompagnano spiritualmente e danno gli Esercizi, tutte persone desiderose di un aiuto pratico per guidare altri e per proporre gli Esercizi con più frutto. […]

 

Il fatto stesso di presentare gli Scritti in quest’aula della Curia generalizia è per me un modo per esprimere la mia gratitudine per tutto ciò che la Compagnia di Gesù mi ha dato e ha fatto per me. Nella persona del Maestro Fiorito sono compresi tanti gesuiti che sono stati miei formatori, e qui voglio fare una menzione particolare di tanti fratelli coadiutori, Maestri con l’esempio gioioso di restare semplici servitori per tutta la vita.

 

Allo stesso tempo è anche un modo per ringraziare e per incoraggiare tanti uomini e donne che, fedeli al carisma dell’accompagnamento spirituale, guidano, sostengono e appoggiano i loro fratelli in quel compito che nella recente Lettera ai sacerdoti ho descritto come la strada che comporta «fare l’esperienza di sapersi discepoli». Non solo quella di esserlo, che è già tanto, ma anche di saperlo (riflettendo spesso su questa grazia per ricavarne frutto, come dice Ignazio negli Esercizi). Infatti il Signore non insegna da solo e nemmeno da una cattedra lontana, ma fa «Scuola» e insegna attorniato dai suoi discepoli che a loro volta sono maestri di altri, e in noi questa consapevolezza rende feconda la sua Parola e la moltiplica. […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 106.

 

Ho conosciuto Fiorito nel 1961, al ritorno dal mio juniorato in Cile. Era professore di Metafisica nel Collegio Massimo di san Giuseppe, la nostra casa di formazione a San Miguel, in provincia di Buenos Aires. Da allora cominciai a confidarmi con lui, divenne il mio direttore spirituale. Attraversava un processo profondo che lo avrebbe portato a lasciare l’insegnamento della filosofia per dedicarsi totalmente a scrivere di spiritualità e a dare Esercizi. Il volume II, nell’anno 1961-62, riporta l’articolo: «Il cristocentrismo del “Principio e fondamento” di sant’Ignazio». Mi aveva molto ispirato. È stato là che ho cominciato a prendere confidenza con alcuni autori che mi accompagnano da allora: Guardini, Hugo Rahner, col suo libro sulla genesi storica della spiritualità di sant’Ignazio, Fessard e la sua Dialettica degli Esercizi.

 

Fiorito faceva notare, in quel contesto, «la coincidenza tra l’immagine del Signore, soprattutto in san Paolo, come la spiega Guardini, e l’immagine del Signore come noi a nostra volta crediamo di trovarla negli Esercizi di sant’Ignazio». Fiorito sosteneva che il «Principio e fondamento» non contiene soltanto un cristocentrismo, ma una vera e propria «Cristologia in germe». E mostrava che quando sant’Ignazio usa l’espressione «Dio nostro Signore» sta parlando concretamente di Cristo, del Verbo fatto carne, Signore non soltanto della storia ma anche della nostra vita pratica. […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 23.

 

Scriveva Fiorito nel 1956: «Da parte mia, confesso che da tempo rifletto sulla spiritualità ignaziana. Per lo meno fin da quando ho fatto con serietà i miei primi Esercizi spirituali, sentendo un avvicendarsi di spiriti contrari, che a poco a poco andavano personalizzandosi nei due termini di una scelta personale». Quella riflessione proseguì «Fino a che la lettura di un libro, arrivato nelle mie mani nel modo più banale e prosaico – come libro di lettura per imparare il tedesco – è stata per me non tanto la rivelazione luminosa di una possibilità di espressione, ma l’espressione compiuta di quell’ideale da tempo intuito». Fiorito aggiunge: «Quello che avrebbe dovuto essere il mio lavoro di molti anni, era l’istantanea accettazione dei risultati di un lavoro altrui», quello di Hugo Rahner. […]

 

Fiorito aveva il dono delle lacrime, che è espressione di consolazione spirituale[17].

 

[17] «Si intende per consolazione quando […] l’anima si infiamma di amore per il suo Creatore e Signore […] così pure quando uno versa lacrime che lo portano all’amore del Signore» (ES 316).

 

Parlando dello sguardo del Signore nella prima settimana degli Esercizi, Fiorito commentava l’importanza che san Benedetto dava alle lacrime e diceva che «le lacrime sono un piccolo segno tangibile della dolcezza di Dio che a malapena si manifesta all’esterno, ma non cessa di impregnare il cuore nel raccoglimento interiore». […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 55.

 

A proposito della misericordia, gli scritti di Fiorito distillano misericordia spirituale: insegnamenti per chi non sa, buoni consigli per chi ne ha bisogno, correzione per chi sbaglia, consolazione per chi è triste e aiuti per conservare la pazienza nella desolazione «senza mai fare cambiamenti», come dice sant’Ignazio. Tutte queste grazie si aggregano e si sintetizzano nella grande opera di misericordia spirituale che è il discernimento. Esso ci guarisce dalla malattia più triste e degna di compassione: la cecità spirituale, che ci impedisce di riconoscere il tempo di Dio, il tempo della sua visita. […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», n. 318.

 

A chi dà gli Esercizi e deve guidare un altro, Ignazio consiglia che «non si avvicini né propenda all’una o all’altra parte, ma resti in equilibrio come il peso sul braccio di una stadera, e lasci che il Creatore agisca direttamente con la creatura, e la creatura con il suo Creatore e Signore» (ES 15). Sebbene al di fuori degli Esercizi «muovere l’altro» sia lecito, Fiorito privilegiava l’atteggiamento di non propendere per una parte o per l’altra, affinché «sia lo stesso Creatore e Signore a comunicarsi alla persona, abbracciandola nel suo amore e alla sua lode, e disponendola alla via nella quale potrà meglio servirlo in futuro». Grazie a questo «mantenersi fuori» era di riferimento per tutti senza la minima ombra di parzialità. E di certo, al momento opportuno, quando chi stava facendo Esercizi con lui ne aveva bisogno – fosse perché era bloccato da qualche tentazione o perché al contrario si trovava in una buona disposizione per fare la sua «elezione» – il Maestro interveniva con forza e decisione per dire la sua e poi, di nuovo, «si teneva fuori», lasciando che Dio operasse in chi svolgeva gli Esercizi. […]

 


Una seconda caratteristica: non esortava. Ti ascoltava in silenzio e poi, invece di parlare, ti dava un «foglietto» che prendeva dalla sua biblioteca. La biblioteca di Fiorito aveva questa particolarità: oltre alla parte consueta, per così dire, con scaffali e libri, ne aveva un’altra che occupava tutta una parete di quasi sei metri per quattro in altezza, formata di cassettini in ciascuno dei quali classificava e metteva i suoi «foglietti», schede di studio, preghiera e azione, ciascuna dedicata a un solo tema degli Esercizi o delle Costituzioni della Compagnia, per esempio. Lui si alzava a cercarle, a volte montando pericolosamente su una scala, per darle senza tante parole a chi faceva gli Esercizi in risposta a qualche inquietudine che quest’ultimo gli aveva manifestato o su cui lui stesso aveva fatto discernimento mentre lo ascoltava parlare delle sue cose. […]

 

Una terza caratteristica che ricordo è che il Maestro Fiorito non era geloso. Non era un uomo geloso: scriveva e firmava con altri, pubblicava ed evidenziava il pensiero di altri, limitando molto spesso il suo a semplici note, che in realtà, come ora si può vedere meglio grazie a questa edizione dei suoi Escritos, erano di somma importanza, perché facevano vedere l’essenziale e l’attualità del pensiero altrui. L’esempio più compiuto della fecondità di questo modo di lavorare intellettualmente in Scuola è, a mio giudizio, l’edizione annotata e commentata delle Memorie spirituali di Pierre Favre che Fiorito curò insieme a Jaime Amadeo. Un vero e proprio classico. Senza tratti di ideologia né di quell’erudizione che è soltanto per eruditi, è un’opera che ci mette in contatto con l’anima di Favre, con la sua limpidezza e dolcezza, con la sua capacità dialogica verso tutti, frutto della sua discrezione spirituale, e con la sua maestria nel dare gli Esercizi. Il Maestro condivideva molta della sensibilità di Favre, in tensione polare con una mente in effetti piuttosto fredda e oggettiva, da ingegnere qual era. […]

 

Qui voglio sottolineare che Fiorito aveva una particolare naso per «sentire» il cattivo spirito; sapeva riconoscerne l’azione, distinguerne i tic, smascherarlo dai frutti cattivi, dal retrogusto amaro e dalla scia di desolazione che si lascia dietro. In questo senso, si può dire che è stato un uomo in armi contro un solo nemico: lo spirito cattivo, Satana, il demonio, il tentatore, l’accusatore, il nemico della nostra natura umana. Tra la bandiera di Cristo e quella di Satana, ha fatto la sua scelta personale per nostro Signore. In tutto il resto ha cercato di discernere il «tanto… quanto» e con ogni persona è stato un padre amabile, un maestro paziente e – quando è capitato – un avversario fermo, ma sempre rispettoso e leale. Mai un nemico. […]

 

Cfr «Esercizi spirituali», nn. 136, 23.

 

Come Provinciale, ho dovuto ricevere il racconto di coscienza annuale del Padre Fiorito. Era un novizio. Un novizio maturo. Era il discepolo del padre che era a sua volta il proprio discepolo. Non riesco a capirlo, ma era la testimonianza della sua grandezza di anima. Come gesuita, al Maestro Miguel Ángel Fiorito si attaglia l’immagine del Salmo 1, quella dell’albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà fiori e frutto a suo tempo. Come quest’albero della Scrittura, Fiorito ha saputo lasciarsi contenere nel minimo spazio del suo ruolo al Collegio Massimo di san Giuseppe, a San Miguel, in Argentina, e là ha messo radici e ha dato fiori e frutto, come ben esprime il suo nome – Fiorito -, nei cuori di noi discepoli della Scuola degli Esercizi. Spero che adesso, grazie a questa magnifica edizione dei suoi Escritos, che hanno l’altezza di un grande sogno, metterà radici e darà fiori e frutti nella vita di tante persone che si nutrono della stessa grazia che lui ha ricevuto e ha saputo comunicare discretamente dando e commentando gli Esercizi spirituali.

 

 

 

ANGELUS
1 marzo 2020

 

Vi chiedo anche un ricordo nella preghiera per gli Esercizi spirituali della Curia Romana, che questa sera inizieranno ad Ariccia. Purtroppo, il raffreddore mi costringe a non partecipare, quest’anno: seguirò da qui le meditazioni. Mi unisco spiritualmente alla Curia e a tutte le persone che stanno vivendo momenti di preghiera, facendo gli Esercizi spirituali a casa.

 

 

 

REGINA CAELI
3 maggio 2020

 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

 

La quarta domenica di Pasqua, che celebriamo oggi, è dedicata a Gesù buon Pastore. Il Vangelo dice: «Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3). Il Signore ci chiama per nome, ci chiama perché ci ama. Però, dice ancora il Vangelo, ci sono altre voci, da non seguire: quelle di estranei, ladri e briganti che vogliono il male delle pecore.

 

Queste diverse voci risuonano dentro di noi. C’è la voce di Dio, che gentilmente parla alla coscienza, e c’è la voce tentatrice che induce al male. Come fare a riconoscere la voce del buon Pastore da quella del ladro, come fare a distinguere l’ispirazione di Dio dalla suggestione del maligno? Si può imparare a discernere queste due voci: esse infatti parlano due lingue diverse, hanno cioè modi opposti per bussare al nostro cuore. Parlano lingue diverse. Come noi sappiamo distinguere una lingua dall’altra, possiamo anche distinguere la voce di Dio e la voce del maligno. La voce di Dio non obbliga mai: Dio si propone, non si impone. Invece la voce cattiva seduce, assale, costringe: suscita illusioni abbaglianti, emozioni allettanti, ma passeggere. All’inizio blandisce, ci fa credere che siamo onnipotenti, ma poi ci lascia col vuoto dentro e ci accusa: “Tu non vali niente”. La voce di Dio, invece, ci corregge, con tanta pazienza, ma sempre ci incoraggia, ci consola: sempre alimenta la speranza. La voce di Dio è una voce che ha un orizzonte, invece la voce del cattivo ti porta a un muro, ti porta all’angolo.

 

Un’altra differenza. La voce del nemico distoglie dal presente e vuole che ci concentriamo sui timori del futuro o sulle tristezze del passato – il nemico non vuole il presente –: fa riaffiorare le amarezze, i ricordi dei torti subiti, di chi ci ha fatto del male…, tanti ricordi brutti. Invece la voce di Dio parla al presente: “Ora puoi fare del bene, ora puoi esercitare la creatività dell’amore, ora puoi rinunciare ai rimpianti e ai rimorsi che tengono prigioniero il tuo cuore”. Ci anima, ci porta avanti, ma parla al presente: ora.

 

Ancora: le due voci suscitano in noi domande diverse. Quella che viene da Dio sarà: “Che cosa mi fa bene?”. Invece il tentatore insisterà su un’altra domanda: “Che cosa mi va di fare?”. Che cosa mi va: la voce cattiva ruota sempre attorno all’io, alle sue pulsioni, ai suoi bisogni, al tutto e subito. È come i capricci dei bambini: tutto e adesso. La voce di Dio, invece, non promette mai la gioia a basso prezzo: ci invita ad andare oltre il nostro io per trovare il vero bene, la pace. Ricordiamoci: il male non dona mai pace, mette frenesia prima e lascia amarezza dopo. Questo è lo stile del male.

 

La voce di Dio e quella del tentatore, infine, parlano in “ambienti” diversi: il nemico predilige l’oscurità, la falsità, il pettegolezzo; il Signore ama la luce del sole, la verità, la trasparenza sincera. Il nemico ci dirà: “Chiuditi in te stesso, tanto nessuno ti capisce e ti ascolta, non fidarti!”. Il bene, al contrario, invita ad aprirsi, a essere limpidi e fiduciosi in Dio e negli altri.

 

Cari fratelli e sorelle, in questo tempo tanti pensieri e preoccupazioni ci portano a rientrare in noi stessi. Prestiamo attenzione alle voci che giungono al nostro cuore. Chiediamoci da dove arrivano. Chiediamo la grazia di riconoscere e seguire la voce del buon Pastore, che ci fa uscire dai recinti dell’egoismo e ci conduce ai pascoli della vera libertà. La Madonna, Madre del buon Consiglio, orienti e accompagni il nostro discernimento.

 

 

 

UDIENZA GENERALE
4 novembre 2020

 

In secondo luogo, la preghiera è un’arte da praticare con insistenza. Gesù stesso ci dice: bussate, bussate, bussate. Tutti siamo capaci di preghiere episodiche, che nascono dall’emozione di un momento; ma Gesù ci educa a un altro tipo di preghiera: quella che conosce una disciplina, un esercizio, e viene assunta entro una regola di vita. Una preghiera perseverante produce una trasformazione progressiva, rende forti nei periodi di tribolazione, dona la grazia di essere sostenuti da Colui che ci ama e ci protegge sempre.

 

 

 

OMELIA SANTA MESSA DEL CRISMA
1 aprile 2021

 

La vicinanza di Gesù che va a mangiare con i peccatori guadagna cuori come quello di Zaccheo, quello di Matteo, quello della Samaritana…, ma provoca anche sentimenti di disprezzo in coloro che si credono giusti.

 

La magnanimità di quell’uomo che manda il suo figlio pensando che sarà rispettato dai vignaioli, scatena tuttavia in essi una ferocia fuori da ogni misura: siamo di fronte al mistero dell’iniquità, che porta a uccidere il Giusto (cfr Mt 21,33-46).

 

Tutto questo, cari fratelli sacerdoti, ci fa vedere che l’annuncio della Buona Notizia è legato misteriosamente alla persecuzione e alla Croce.

 

Sant’Ignazio di Loyola, nella contemplazione della Natività – scusatemi questa pubblicità di famiglia -, in quella contemplazione della Natività esprime questa verità evangelica quando ci fa osservare e considerare quello che fanno San Giuseppe e la Madonna: «Per esempio, camminano e si danno da fare perché il Signore nasca in un’estrema povertà e, dopo aver tanto sofferto fame e sete, caldo e freddo, ingiurie e oltraggi, muoia in croce. E tutto questo per me. Poi – aggiunge Ignazio –, riflettendo, ricavare qualche frutto spirituale» (Esercizi spirituali, 116). La gioia della nascita del Signore, il dolore della Croce, la persecuzione.

 

Che riflessione possiamo fare per trarre profitto per la nostra vita sacerdotale contemplando questa precoce presenza della Croce – dell’incomprensione, del rifiuto, della persecuzione – all’inizio e nel cuore stesso della predicazione evangelica?

 

Mi vengono in mente due riflessioni.

 

La prima: non meraviglia constatare che la Croce è presente nella vita del Signore all’inizio del suo ministero e perfino prima della sua nascita. È presente già nel primo turbamento di Maria davanti all’annuncio dell’Angelo; è presente nell’insonnia di Giuseppe al sentirsi obbligato ad abbandonare la sua promessa sposa; è presente nella persecuzione di Erode e nei disagi che patisce la Santa Famiglia, uguali a quelle di tante famiglie che devono andare in esilio dalla propria patria.

 

Questa realtà ci apre al mistero della Croce vissuta “da prima”. Ci fa comprendere che la Croce non è un fatto a posteriori, un fatto occasionale, prodotto da una congiuntura nella vita del Signore. È vero che tutti i crocifissori della storia fanno apparire la Croce come se fosse un danno collaterale, ma non è così: la Croce non dipende dalle circostanze. Le grandi croci dell’umanità e le piccole – diciamo così – croci nostre, di ognuno di noi non dipendono dalle circostanze.

 

Perché il Signore ha abbracciato la Croce in tutta la sua integrità? Perché Gesù ha abbracciato la passione intera? Ha abbracciato il tradimento e l’abbandono dei suoi amici già dall’ultima cena, ha accettato la detenzione illegale, il giudizio sommario, la sentenza sproporzionata, la cattiveria senza motivo degli schiaffi e degli sputi gratuiti… Se le circostanze determinassero il potere salvifico della Croce, il Signore non avrebbe abbracciato tutto. Ma quando è stata la sua ora, Egli ha abbracciato la Croce intera. Perché nella Croce non c’è ambiguità! La Croce non si negozia.

 

La seconda riflessione è la seguente. È vero che c’è qualcosa della Croce che è parte integrante della nostra condizione umana, del limite e della fragilità. Però è anche vero che c’è qualcosa di ciò che accade nella Croce che non è inerente alla nostra fragilità, bensì è il morso del serpente, il quale, vedendo il crocifisso inerme, lo morde e tenta di avvelenare e screditare tutta la sua opera. Morso che cerca di scandalizzare - questa è un’epoca degli scandali-, morso che cerca di immobilizzare e rendere sterile e insignificante ogni servizio e sacrificio d’amore per gli altri. È il veleno del maligno che continua a insistere: salva te stesso.

 

E in questo morso, crudele e doloroso, che pretende di essere mortale, appare alla fine il trionfo di Dio. San Massimo il Confessore ci ha fatto vedere che con Gesù crocifisso le cose si sono invertite: mordendo la carne del Signore, il demonio non lo ha avvelenato – in Lui ha trovato solo mansuetudine infinita e obbedienza alla volontà del Padre – ma, al contrario, unita all’amo della Croce ha inghiottito la Carne del Signore, che è stata veleno per lui ed è diventata per noi l’antidoto che neutralizza il potere del maligno.

 

Queste sono le riflessioni. Chiediamo al Signore la grazia di trarre profitto da questi insegnamenti: c’è Croce nell’annuncio del Vangelo, è vero, ma è una Croce che salva. Pacificata con il Sangue di Gesù, è una Croce con la forza della vittoria di Cristo che sconfigge il male, che ci libera dal Maligno. Abbracciarla con Gesù e come Lui, già “da prima” di andare a predicare, ci permette di discernere e respingere il veleno dello scandalo con cui il demonio cercherà di avvelenarci quando inaspettatamente sopraggiungerà una croce nella nostra vita.

 

«Noi però non siamo di quelli che cedono (hypostoles)» (Eb 10,39) dice l’autore della Lettera agli Ebrei. «Noi però non siamo di quelli che cedono», è il consiglio che ci dà: noi non ci scandalizziamo, perché non si è scandalizzato Gesù vedendo che il suo lieto annuncio di salvezza ai poveri non risuonava puro, ma in mezzo alle urla e alle minacce di quelli che non volevano udire la sua Parola o volevano ridurla a legalismi (moralisti, clericalisti...).

 

Noi non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù dovendo guarire malati e liberare prigionieri in mezzo alle discussioni e alle controversie moralistiche, legalistiche, clericali che suscitava ogni volta che faceva il bene.

 

Noi non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù dovendo dare la vista ai ciechi in mezzo a gente che chiudeva gli occhi per non vedere o guardava dall’altra parte.

 

Noi non ci scandalizziamo perché non si è scandalizzato Gesù del fatto che la sua predicazione dell’anno di grazia del Signore – un anno che è la storia intera – abbia provocato uno scandalo pubblico in ciò che oggi occuperebbe appena la terza pagina di un giornale di provincia.

 

E non ci scandalizziamo perché l’annuncio del Vangelo non riceve la sua efficacia dalle nostre parole eloquenti, ma dalla forza della Croce (cfr 1 Cor 1,17).

 

Dal modo in cui abbracciamo la Croce annunciando il Vangelo – con le opere e, se necessario, con le parole – si manifestano due cose: che le sofferenze procurateci dal Vangelo non sono nostre, ma «le sofferenze di Cristo in noi» (2 Cor 1,5) e che «non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore» e noi siamo «servitori a causa di Gesù» (2 Cor 4,5).

 

Desidero concludere con un ricordo. Una volta, in un momento molto buio della mia vita, chiedevo una grazia al Signore, che mi liberasse da una situazione dura e difficile. Un momento buio. Sono andato a predicare gli Esercizi spirituali ad alcune religiose e l’ultimo giorno, com’era abituale in quel tempo, si sono confessate. È venuta una suora molto anziana, con gli occhi chiari, proprio luminosi. Era una donna di Dio. Allora ho sentito il desiderio di chiederle per me e le ho detto: “Suora, come penitenza preghi per me, perché ho bisogno di una grazia. La chieda al Signore. E se Lei la chiede al Signore, me la darà di sicuro”. Lei ha fatto silenzio, ha aspettato un bel po’, come se pregasse, e poi mi ha guardato e mi ha detto: “Certamente il Signore Le darà la grazia, ma non si sbagli: la darà con il suo modo divino”. Questo mi ha fatto tanto bene: sentire che il Signore ci dà sempre quello che chiediamo, ma lo fa nel suo modo divino. Questo modo implica la croce. Non per masochismo, ma per amore, per amore sino alla fine.

 

 

 

UDIENZA GENERALE
12 maggio 2021

 

Tutti gli uomini e le donne di Dio riferiscono non solamente la gioia della preghiera, ma anche il fastidio e la fatica che essa può procurare: in qualche momento è una dura lotta tenere fede ai tempi e ai modi della preghiera. Qualche santo l’ha portata avanti per anni senza provarne alcun gusto, senza percepirne l’utilità. Il silenzio, la preghiera, la concentrazione sono esercizi difficili, e qualche volta la natura umana si ribella. Preferiremmo stare in qualsiasi altra parte del mondo, ma non lì, su quella panca della chiesa a pregare. Chi vuole pregare deve ricordarsi che la fede non è facile, e qualche volta procede in un’oscurità quasi totale, senza punti di riferimento. Ci sono momenti della vita di fede che sono oscuri e per questo qualche Santo li chiama: “La notte oscura”, perché non si sente nulla. Ma io continuo a pregare.

 

I nemici peggiori della preghiera sono però dentro di noi. Il Catechismo li chiama così: «Scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al Signore, poiché abbiamo “molti beni”, delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera» (n. 2728). Si tratta chiaramente di un elenco sommario, che potrebbe essere allungato.

 

Cosa fare nel tempo della tentazione, quando tutto sembra vacillare? Se perlustriamo la storia della spiritualità, notiamo subito come i maestri dell’anima avessero ben chiara la situazione che abbiamo descritto. Per superarla, ognuno di essi ha offerto qualche contributo: una parola di sapienza, oppure un suggerimento per affrontare i tempi irti di difficoltà. Non si tratta di teorie elaborate a tavolino, no, quanto di consigli nati dall’esperienza, che mostrano l’importanza di resistere e di perseverare nella preghiera.

 

Sarebbe interessante passare in rassegna almeno alcuni di questi consigli, perché ciascuno merita di essere approfondito. Ad esempio, gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola sono un libretto di grande sapienza, che insegna a mettere ordine nella propria vita. Fa capire che la vocazione cristiana è militanza, è decisione di stare sotto la bandiera di Gesù Cristo e non sotto quella del diavolo, cercando di fare il bene anche quando ciò diventa difficile.

 

Nei tempi di prova è bene ricordarsi che non siamo soli, che qualcuno veglia al nostro fianco e ci protegge. Anche Sant’Antonio abate, il fondatore del monachesimo cristiano, in Egitto, affrontò momenti terribili, in cui la preghiera si trasformava in dura lotta. Il suo biografo Sant’Atanasio, Vescovo di Alessandria, narra che uno degli episodi peggiori capitò al Santo eremita intorno ai trentacinque anni, età di mezzo che per molti comporta una crisi. Antonio fu turbato da quella prova, ma resistette. Quando finalmente tornò il sereno, si rivolse al suo Signore con un tono quasi di rimprovero: «Dov’eri? Perché non sei venuto subito a porre fine alle mie sofferenze?». E Gesù rispose: «Antonio, io ero là. Ma aspettavo di vederti combattere» (Vita di Antonio, 10). Combattere nella preghiera. E tante volte la preghiera è un combattimento. Mi viene alla memoria una cosa che ho vissuto da vicino, quando ero nell’altra diocesi. C’era una coppia che aveva una figlia di nove anni, con una malattia che i medici non sapevano cosa fosse. E alla fine, in ospedale, il medico disse alla mamma: “Signora, chiami suo marito”. E il marito era a lavoro; erano operai, lavoravano tutti i giorni. E disse al padre: “La bambina non passa la notte. È un’infezione, non possiamo fare nulla”. Quell’uomo, forse non andava tutte le domeniche a Messa, ma aveva una fede grande. Uscì piangendo, lasciò la moglie lì con la bambina nell’ospedale, prese il treno e fece i settanta chilometri di distanza verso la Basilica della Madonna di Luján, la Patrona dell’Argentina. E lì - la basilica era già chiusa, erano quasi le dieci di notte, di sera – lui si aggrappò alle grate della Basilica e tutta la notte pregando la Madonna, combattendo per la salute della figlia. Questa non è una fantasia; l’ho visto io! L’ho vissuto io. Combattendo quell’uomo lì. Alla fine, alle sei del mattino, si aprì la chiesa e lui entrò a salutare la Madonna: tutta la notte a “combattere”, e poi tornò a casa. Quando arrivò, cercò la moglie, ma non la trovò e pensò: “Se ne è andata. No, la Madonna non può farmi questo”. Poi la trovò, sorridente che diceva: “Ma non so cosa è successo; i medici dicono che è cambiato così e che adesso è guarita”. Quell’uomo lottando con la preghiera ha avuto la grazia della Madonna. La Madonna lo ha ascoltato. E questo l’ho visto io: la preghiera fa dei miracoli, perché la preghiera va proprio al centro della tenerezza di Dio che ci ama come un padre. E quando non ci fa la grazia, ce ne farà un’altra che poi vedremo con il tempo. Ma sempre occorre il combattimento nella preghiera per chiedere la grazia. Sì, delle volte noi chiediamo una grazia di cui abbiamo bisogno, ma la chiediamo così, senza voglia, senza combattere, ma non si chiedono così le cose serie. La preghiera è un combattimento e il Signore sempre è con noi.

 

Se in un momento di cecità non riusciamo a scorgere la sua presenza, ci riusciremo in futuro. Capiterà anche a noi di ripetere la stessa frase che disse un giorno il patriarca Giacobbe: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Alla fine della nostra vita, volgendo all’indietro lo sguardo, anche noi potremo dire: “Pensavo di essere solo, ma no, non lo ero: Gesù era con me”. Tutti potremo dire questo.

 

 

 

SALUTO ALLA DELEGAZIONE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA PALLACANESTRO
31 maggio 2021

 

Un secondo aspetto, un’attitudine dello sportivo è la disciplina. Tanti giovani e adulti che sono appassionati allo sport e vi seguono tifando per voi, a volte non riescono a immaginare quanto lavoro e quanto allenamento ci sia dietro una gara. E questo richiede tanta disciplina non solo fisica, ma anche interiore: l’esercizio fisico, la costanza, l’attenzione a una vita ordinata negli orari e nell’alimentazione, il riposo alternato alla fatica dell’allenamento. Questa disciplina è una scuola di formazione e di educazione, specialmente per i ragazzi e per i giovani. Li aiuta a capire quanto è importante – e scusate se cito Sant’Ignazio di Loyola – imparare a “mettere ordine nella propria vita”. Questa disciplina non ha lo scopo di farci diventare rigidi, ma di renderci responsabili: di noi stessi, delle cose che ci sono affidate, degli altri, della vita in generale. Aiuta anche la vita spirituale, che non può essere lasciata alle sole emozioni né può essere vissuta a fasi alterne, “solo quando mi va”. Anche la vita spirituale ha bisogno di una disciplina interiore fatta di fedeltà, costanza, impegno quotidiano nella preghiera. Senza allenamento interiore costante, la fede rischia di spegnersi.

 

 

 

CONVERSAZIONE CON I GESUITI SLOVACCHI
12 settembre 2021

 

Un gesuita chiede come vede la Compagnia oggi. Parla di una certa mancanza di fervore, di una volontà di cercare sicurezze più che di andare negli incroci, come chiedeva Paolo VI, perché non è facile.

 

No, facile certo non è. Ma quando si sente che manca il fervore, si deve fare un discernimento per capire il perché. Ne devi parlare con i tuoi fratelli. La preghiera aiuta a capire se e quando manca il fervore. Bisogna parlarne ai fratelli, ai superiori e poi devi fare un discernimento per verificare se è una desolazione solo tua o è una desolazione più comunitaria. Gli Esercizi ci danno la possibilità di trovare risposte a domande come questa. Io sono convinto che noi non conosciamo bene gli Esercizi. Le annotazioni e le regole del discernimento sono un vero tesoro. Dobbiamo conoscerle meglio.

 

Cfr. Esercizi Spirituali, 1-20; 313-336

 

 

 

ANGELUS
14 novembre 2021

 

E noi, fratelli e sorelle, domandiamoci: in che cosa stiamo investendo la vita? Su cose che passano, come il denaro, il successo, l’apparenza, il benessere fisico? Di queste cose, noi non porteremo nulla. Siamo attaccati alle cose terrene, come se dovessimo vivere qui per sempre? Mentre siamo giovani, in salute, va bene tutto, ma quando arriva l’ora del congedo dobbiamo lasciare tutto. La Parola di Dio oggi ci avverte: passa la scena di questo mondo. E rimarrà soltanto l’amore. Fondare la vita sulla Parola di Dio, dunque, non è evadere dalla storia, è immergersi nelle realtà terrene per renderle salde, per trasformarle con l’amore, imprimendovi il segno dell’eternità, il segno di Dio. Ecco allora un consiglio per prendere le scelte importanti. Quando io non so cosa fare, come prendere una scelta definitiva, una scelta importante, una scelta che comporta l’amore di Gesù, cosa devo fare? Prima di decidere, immaginiamo di stare davanti a Gesù, come alla fine della vita, davanti a Lui che è amore. E pensandoci lì, al suo cospetto, alla soglia dell’eternità, prendiamo la decisione per l’oggi. Così dobbiamo decidere: sempre guardando l’eternità, guardando Gesù. Non sarà forse la più facile, non sarà forse la più immediata, ma sarà quella buona, quello è sicuro (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 187).

 

 

 

COLLOQUIO CON I GESUITI DELLA GRECIA
4 dicembre 2021

 

Si presenta il p. Freris. […] Dice al Papa che una volta la comunità era numerosa e molto attiva, dando molto al Paese. Molte loro opere erano di carattere culturale e intellettuale, di apertura al dialogo. Una di queste attività era la pubblicazione di una rivista. Ora la situazione è di debolezza. I gesuiti fanno quello che possono con le poche forze a disposizione. Il Papa interviene commentando:

 

Una cosa che richiama l’attenzione è il debilitarsi della Compagnia. Quando sono entrato in noviziato, eravamo 33.000 gesuiti. Ora quanti siamo? Più o meno la metà. E continueremo a diminui­re di numero. Questo dato è comune a tanti Ordini e Congregazioni religiose. Ha un significato, e noi dobbiamo chiederci quale sia. In definitiva, questa diminuzione non dipende da noi. La vocazione la manda il Signore. Se non viene, non dipende da noi. Credo che il Signore ci stia dando un insegnamento per la vita religiosa. Per noi ha un significato nel senso dell’umiliazione. Negli Esercizi Spirituali Ignazio punta sempre a questo: all’umiliazione. Sulla crisi vocazionale il gesuita non può rimanere al livello della spiegazione sociologica. Questa è, al limite, la metà del vero. La verità più profonda è che il Signore ci porta a questa umiliazione dei numeri per aprire a ciascuno la via al «terzo grado di umiltà», che è l’unica fecondità gesuitica che vale. Il terzo grado di umiltà è l’obiettivo degli Esercizi. La grande rivista scientifica oggi non esiste più: che vuol dire il Signore con questo? Umiliati, umiliati! Non so se mi sono spiegato. Dobbiamo abituarci all’umiliazione.

 

Cfr. Esercizi Spirituali, 167.

 

 

 

DISCORSO AI MEMBRI DEL COLLEGIO CARDINALIZIO E DELLA CURIA ROMANA
23 dicembre 2021

 

Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere le umiliazioni.

 

 

 

ANGELUS
6 marzo 2022

 

Oggi pomeriggio, insieme con i collaboratori della Curia Romana, inizieremo gli Esercizi spirituali. Portiamo nella nostra preghiera tutte le necessità della Chiesa e della famiglia umana. E anche voi, per favore, pregate per noi.

 

 

 

PRAEDICATE EVANGELIUM
19 marzo 2022

 

Prefettura della Casa Pontificia

Art. 229 §3. Si occupa di quanto si riferisce agli Esercizi spirituali del Romano Pontefice, del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana.

 

 

 

CONVERSAZIONE CON I DIRETTORI DELLE RIVISTE CULTURALI EUROPEE DEI GESUITI
19 maggio 2022

 

Quali segni di rinnovamento spirituale vede nella Chiesa? Ne vede? Ci sono segni di vita nuova, fresca?

 

È molto difficile vedere un rinnovamento spirituale usando schemi molto antiquati. Bisogna rinnovare il nostro modo di vedere la realtà, di valutarla. Nella Chiesa europea vedo più rinnovamento nelle cose spontanee che stanno nascendo: movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo.

 

Il restaurazionismo è arrivato a imbavagliare il Concilio. Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati Uniti ce ne sono tanti – è impressionante. Un vescovo argentino mi raccontava che gli era stato chiesto di amministrare una diocesi che era caduta nelle mani di questi «restauratori». Non avevano mai accettato il Concilio. Ci sono idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni per farlo attecchire, dunque!

 

Segni di rinnovamento sono anche i gruppi che attraverso l’assistenza sociale o pastorale danno un nuovo volto alla Chiesa. I francesi sono molto creativi in questo.

 

Voi non eravate ancora nati, ma io sono stato testimone nel 1974 del calvario del Preposito generale p. Pedro Arrupe nella Congregazione Generale XXXII. A quel tempo c’è stata una reazione conservatrice per bloccare la voce profetica di Arrupe! Oggi per noi quel Generale è un santo, ma ha dovuto subire molti attacchi. È stato coraggioso, perché ha osato fare il passo. Arrupe era un uomo di grande obbedienza al Papa. Una grande obbedienza. E Paolo VI lo capì. Il miglior discorso mai scritto da un Papa alla Compagnia di Gesù è quello che Paolo VI fece il 3 dicembre 1974. E l’ha scritto a mano. Ci sono gli originali. Il profeta Paolo VI ebbe la libertà di scriverlo. D’altra parte, persone legate alla Curia alimentavano in qualche modo un gruppo di gesuiti spagnoli che si consideravano i veri «ortodossi» e si contrapponevano ad Arrupe. Paolo VI non è mai entrato in questo gioco. Arrupe aveva la capacità di vedere la volontà di Dio, unita a una semplicità infantile nell’aderire al Papa. Ricordo che un giorno, mentre prendevamo il caffè in un piccolo gruppo, lui passò e disse: «Andiamo, andiamo! Il Papa sta per passare, salutiamolo!». Era come un ragazzo! Con quell’amore spontaneo!

 

Un gesuita della Provincia di Loyola si era particolarmente accanito contro p. Arrupe, ricordiamolo. Fu inviato in vari luoghi e persino in Argentina, e sempre combinò guai. Una volta mi disse: «Tu sei uno che non capisce niente. Ma i veri colpevoli sono p. Arrupe e p. Calvez. Il giorno più felice della mia vita sarà quando li vedrò appesi alla forca in Piazza San Pietro». Perché vi racconto questa storia? Per farvi capire com’era il periodo post-conciliare. E questo sta accadendo di nuovo, soprattutto con i tradizionalisti. Per questo è importante salvare queste figure che hanno difeso il Concilio e la fedeltà al Papa. Dobbiamo tornare ad Arrupe: è una luce di quel momento che illumina tutti noi. E fu lui a riscoprire gli Esercizi spirituali come fonte, liberandosi dalle rigide formulazioni dell’Epitome Instituti, espressione di un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico.

 

Epitome Instituti: una specie di riassunto pratico in uso nella Compagnia e formulato nel XX secolo, che venne visto come un sostitutivo delle Costituzioni. La formazione dei gesuiti per un certo tempo fu plasmata da questo testo, a tal punto che qualcuno non lesse mai le Costituzioni.

 

 

 

VOLO PAPALE
29 luglio 2022

 

Quello che il Signore dica. Il Signore può dire: “Dimettiti”. È il Signore che comanda. Una cosa su Sant’Ignazio, questo è importante: quando uno era stanco, malato, diceva a Sant’Ignazio: “Io non posso fare la preghiera”, e lui dispensava dalla preghiera. Ma mai dispensava dall’esame di coscienza: due volte al giorno guardare cosa è successo… Non è questione di peccati o non peccati, no: “Quale spirito mi ha mosso oggi?”. La nostra vocazione diceva: cercare cosa è successo oggi. Se io – questa è un’ipotesi – vedo che il Signore mi dice qualcosa, un’ispirazione di quello o dell’altro, devo fare un discernimento per vedere cosa chiede il Signore. E può darsi che il Signore mi vuole mandare all’angolo, è cosa sua, è Lui che comanda. Questo credo che è il modo religioso di vivere di un gesuita: stare nel discernimento spirituale per prendere delle decisioni, per scegliere vie di lavoro e anche scegliere gli impegni. Il discernimento è chiave nella vocazione del gesuita. Questo è importante. Sant’Ignazio in questo era molto fermo, perché è stata la sua propria esperienza del discernimento spirituale che lo ha portato alla conversione. E gli esercizi [Esercizi, NdR] spirituali sono davvero una scuola di discernimento. Così, il gesuita dev’essere per vocazione un uomo di discernimento, discernere le situazioni, discernere la propria coscienza, discernere le decisioni da prendere. E per questo dev’essere aperto a qualsiasi cosa che il Signore gli chieda. Questa è un po’ la nostra spiritualità.

 

 

 

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO: 2. UN ESEMPIO: IGNAZIO DI LOYOLA
7 settembre 2022

 

Ecco allora l’altro aspetto: il punto di arrivo dei pensieri. All’inizio la situazione non sembra così chiara. C’è uno sviluppo del discernimento: per esempio capiamo cosa sia il bene per noi non in modo astratto, generale, ma nel percorso della nostra vita. Nelle regole per il discernimento, frutto di questa esperienza fondamentale, Ignazio pone una premessa importante, che aiuta a comprendere tale processo: «A coloro che passano da un peccato mortale all’altro, il demonio comunemente è solito proporre piaceri apparenti, tranquillizzarli che tutto va bene, facendo loro immaginare diletti e piaceri sensuali, per meglio mantenerli e farli crescere nei loro vizi e peccati. Con questi, lo spirito buono usa il metodo opposto, stimolando al rimorso la loro coscienza con il giudizio della ragione» (Esercizi Spirituali, 314).

 

 

 

LETTERA ALL’EM.MO CARD. OMELLA IN OCCASIONE
DEL V CENTENARIO DELLA CONVERSIONE DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA
12 settembre 2022

 

In quella circostanza, Ignazio si dimostrò docile a questa chiamata, ma la cosa più importante è che non trattenne quella grazia per sé, ma la considerò fin dall’inizio come un dono per gli altri, come un cammino, un metodo che poteva aiutare altre persone a incontrare Dio, ad aprire il proprio cuore e a lasciarsi interpellare da Lui. Da allora i suoi esercizi [Esercizi, NdR] spirituali, come altri cammini di perfezione, quali i dodici gradi di umiltà di san Benedetto, las moradas [il castello interiore] di santa Teresa, o più semplicemente ciò che ci propongono le beatitudini o i doni dello Spirito Santo, si presentano a noi come quella scala di Giacobbe che dalla terra ci porta al cielo, e che Gesù promette a quanti lo cercano sinceramente.

 

 

 

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO: 3. GLI ELEMENTI DEL DISCERNIMENTO.
LA FAMILIARITÀ CON IL SIGNORE
28 settembre 2022

 

Chiediamo questa grazia: di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come un amico parla all’amico (cfr. S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 54). Io ho conosciuto un vecchio fratello religioso che era il portiere di un collegio e lui ogni volta che poteva si avvicinava alla cappella, guardava l’altare, diceva: “Ciao”, perché aveva vicinanza con Gesù. Lui non aveva bisogno di dire bla bla bla, no: “ciao, ti sono vicino e tu mi sei vicino”. Questo è il rapporto che dobbiamo avere nella preghiera: vicinanza, vicinanza affettiva, come fratelli, vicinanza con Gesù. Un sorriso, un semplice gesto e non recitare parole che non arrivano al cuore. Come dicevo, parlare con Gesù come un amico parla all’altro amico. È una grazia che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri: vedere Gesù come il nostro amico, il nostro amico più grande, il nostro amico fedele, che non ricatta, soprattutto che non ci abbandona mai, anche quando noi ci allontaniamo da Lui. Lui rimane alla porta del cuore. “No, io con te non voglio sapere nulla”, diciamo noi. E Lui rimane zitto, rimane lì a portata di mano, a portata di cuore perché Lui sempre è fedele. Andiamo avanti con questa preghiera, diciamo la preghiera del “ciao”, la preghiera di salutare il Signore con il cuore, la preghiera dell’affetto, la preghiera della vicinanza, con poche parole ma con gesti e con opere buone. Grazie.

 

Esercizi Spirituali, 54: «Propriamente parlando, il colloquio si fa così come un amico parla a un altro o un servo al suo padrone, ora chiedendo qualche grazia, ora incolpandosi di qualche malefatta, ora comunicando le proprie cose e chiedendo consiglio su di esse».

 

 

 

DISCORSO A SEMINARISTI E SACERDOTI CHE STUDIANO A Roma
24 ottobre 2022

 

Una volta un mio professore di filosofia – era un grande padre spirituale, ha pubblicato tanti libri anche sugli esercizi [Esercizi, NdR] e sono tradotti in italiano, padre Fiorito – un giorno ha dato una conferenza sui comportamenti, i fondamenti filosofici, ma è scivolato subito sulla spiritualità, e una delle sue domande io la farei a tutti voi, seminaristi, teologi: voi giocate con i bambini? Sapete giocare con i bambini? Questa domanda lui la faceva sempre ai genitori, diceva: “Tu, papà, quando torni dal lavoro, o tu mamma, giochi con i tuoi figli?”. La tenerezza si impara con i bambini e con i vecchi. E l’abitudine che c’è di allontanare i vecchi perché disturbano, questo ci allontana da una delle fonti di tenerezza. Lo stile di Dio, non dimenticarti, è sempre vicinanza, compassione e tenerezza. E se tu sei vicino, con compassione e tenerezza, sei sulla strada buona. La tenerezza non è “fare il buono”. A volte nel fare il buono si può scivolare nel fare lo stupido. No. Tenerezza è questo che ho detto.

 

 

 

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO. 7. LA MATERIA DEL DISCERNIMENTO.
LA DESOLAZIONE
26 ottobre 2022

 

La desolazione è stata così definita: «L’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza, e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste, come separata dal suo Creatore e Signore» (S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 317). Tutti noi ne abbiamo esperienza. Credo che in un modo o nell’altro, abbiamo fatto esperienza di questo, della desolazione. Il problema è come poterla leggere, perché anch’essa ha qualcosa di importante da dirci, e se abbiamo fretta di liberarcene, rischiamo di smarrirla. […]

 

Per chi invece ha il desiderio di compiere il bene, la tristezza è un ostacolo con il quale il tentatore vuole scoraggiarci. In tal caso, si deve agire in maniera esattamente contraria a quanto suggerito, decisi a continuare quanto ci si era proposto di fare (cfr. Esercizi spirituali, 318). Pensiamo al lavoro, allo studio, alla preghiera, a un impegno assunto: se li lasciassimo appena avvertiamo noia o tristezza, non concluderemmo mai nulla. È anche questa un’esperienza comune alla vita spirituale: la strada verso il bene, ricorda il Vangelo, è stretta e in salita, richiede un combattimento, un vincere sé stessi. Inizio a pregare, o mi dedico a un’opera buona e, stranamente, proprio allora mi vengono in mente cose da fare con urgenza – per non pregare e per non fare le cose buone. Tutti abbiamo questa esperienza. È importante, per chi vuole servire il Signore, non lasciarsi guidare dalla desolazione. E questo che … “Ma no, non ho voglia, questo è noioso …”: stai attento. Purtroppo, alcuni decidono di abbandonare la vita di preghiera, o la scelta intrapresa, il matrimonio o la vita religiosa, spinti dalla desolazione, senza prima fermarsi a leggere questo stato d’animo, e soprattutto senza l’aiuto di una guida. Una regola saggia dice di non fare cambiamenti quando si è desolati. Sarà il tempo successivo, più che l’umore del momento, a mostrare la bontà o meno delle nostre scelte.

 

Esercizi Spirituali, 318: «In tempo di desolazione non si deve mai fare mutamento ma restare fermo e costante nei propositi e nella determinazione in cui si stava nel giorno precedente a tale desolazione, o nella determinazione in cui si stava nell’antecedente consolazione. Come infatti nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, così nella desolazione il cattivo, con i cui consigli non possiamo prendere la giusta strada».

 

 

 

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO. 9. LA CONSOLAZIONE
23 novembre 2022

 

La consolazione è un movimento intimo, che tocca il profondo di noi stessi. Non è appariscente ma è soave, delicata, come una goccia d’acqua su una spugna (cfr. S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 335): la persona si sente avvolta dalla presenza di Dio, in una maniera sempre rispettosa della propria libertà. Non è mai qualcosa di stonato che cerca di forzare la nostra volontà, non è neppure un’euforia passeggera: al contrario, come abbiamo visto, anche il dolore – ad esempio per i propri peccati – può diventare motivo di consolazione.

 

Esercizi Spirituali, 335: «In quelli che procedono di bene in meglio, l’angelo buono tocca l’anima dolcemente, delicatamente e soavemente, come goccia d’acqua che entra in una spugna; e il cattivo tocca in modo pungente e con strepito e inquietudine, come quando la goccia d’acqua cade sopra la pietra. I sopraddetti spiriti toccano in modo contrario quelli che procedono di male in peggio; causa di questo è la disposizione dell’anima che è contraria o simile ai detti angeli; quando infatti è contraria, entrano con strepito e facendosi sentire in maniera percettibile, e quando è simile, entra silenziosamente come in casa propria a porta aperta».

 

 

 

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO. 10. LA CONSOLAZIONE AUTENTICA
30 novembre 2022

 

Proseguendo la nostra riflessione sul discernimento, e in particolare sull’esperienza spirituale chiamata “consolazione”, della quale abbiamo parlato l’altro mercoledì, ci chiediamo: come riconoscere la vera consolazione? È una domanda molto importante per un buon discernimento, per non essere ingannati nella ricerca del nostro vero bene.

 

Possiamo trovare alcuni criteri in un passo degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola. «Se nei pensieri tutto è buono – dice Sant’Ignazio – il principio, il mezzo e la fine, e se tutto è orientato verso il bene, questo è un segno dell’angelo buono. Può darsi invece che nel corso dei pensieri si presenti qualche cosa cattiva o distrattiva o meno buona di quella che l’anima prima si era proposta di fare, oppure qualche cosa che indebolisce l’anima, la rende inquieta, la mette in agitazione e le toglie la pace, le toglie la tranquillità e la calma che aveva prima: questo allora è un chiaro segno che quei pensieri provengono dallo spirito cattivo» (n. 333). Perché è vero: c’è una vera consolazione, ma anche ci sono delle consolazioni che non sono vere. E per questo bisogna capire bene il percorso della consolazione: come va e dove mi porta? Se mi porta a una cosa che va meno, che non è buona, la consolazione non è vera, è “finta”, diciamo così.

 

E queste sono indicazioni preziose, che meritano un breve commento. Cosa significa che il principio è orientato al bene, come dice Sant’Ignazio di una buona consolazione? Ad esempio ho il pensiero di pregare, e noto che si accompagna ad affetto verso il Signore e il prossimo, invita a compiere gesti di generosità, di carità: è un principio buono. Può invece accadere che quel pensiero sorga per evitare un lavoro o un incarico che mi è stato affidato: ogni volta che devo lavare i piatti o pulire la casa, mi viene una grande voglia di mettermi a pregare! Succede questo, nei conventi. Ma la preghiera non è una fuga dai propri compiti, al contrario è un aiuto a realizzare quel bene che siamo chiamati a compiere, qui e ora. Questo riguardo al principio.

 

C’è poi il mezzo: Sant’Ignazio diceva che il principio, il mezzo e la fine devono essere buoni. Il principio è questo: io ho voglia di pregare per non lavare i piatti: vai, lava i piatti e poi vai a pregare. Poi c’è il mezzo, vale a dire ciò che viene dopo, ciò che segue quel pensiero. Rimanendo nell’esempio precedente, se comincio a pregare e, come fa il fariseo della parabola (cfr. Lc 18,9-14), tendo a compiacermi di me stesso e a disprezzare gli altri, magari con animo risentito e acido, allora questi sono segni che lo spirito cattivo ha usato quel pensiero come chiave di accesso per entrare nel mio cuore e trasmettermi i suoi sentimenti. Se io vado a pregare e mi viene in mente quello del fariseo famoso – “Ti ringrazio, Signore, perché io prego, non sono come l’altra gente che non ti cerca, non prega” – lì, quella preghiera finisce male. Quella consolazione di pregare è per sentirsi un pavone davanti a Dio. E questo è il mezzo che non va.

 

E poi c’è la fine: il principio, il mezzo e la fine. La fine è un aspetto che abbiamo già incontrato, e cioè: dove mi porta un pensiero? Per esempio, dove mi porta il pensiero di pregare. Ad esempio, qui può capitare che mi impegni a fondo per un’opera bella e meritevole, ma questo mi spinge a non pregare più, perché sono indaffarato da tante cose, mi scopro sempre più aggressivo e incattivito, ritengo che tutto dipenda da me, fino a perdere fiducia in Dio. Qui evidentemente c’è l’azione dello spirito cattivo. Io mi metto a pregare, poi nella preghiera mi sento onnipotente, che tutto deve essere nelle mie mani perché io sono l’unico, l’unica che sa portare avanti le cose: evidentemente non c’è il buono spirito lì. Occorre esaminare bene il percorso dei nostri sentimenti e il percorso dei buoni sentimenti, della consolazione, nel momento in cui io voglio fare qualcosa. Come è il principio, come è la metà e come è la fine.

 

 

 

CON I GESUITI DEL CONGO E DEL SUD SUDAN
2 febbraio 2023

 

Santo Padre, la Compagnia di Gesù riceve la sua missione dal Papa. Qual è la missione che lei dà alla Compagnia oggi?

 

Sono d’accordo con le preferenze apostoliche universali che la Compagnia ha elaborato. Esse consistono innanzitutto nell’indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi spirituali e il discernimento.

 

La seconda è quella della missione di riconciliazione e di giustizia, che va fatta camminando insieme ai poveri, agli esclusi, a coloro che sono feriti nella propria dignità. E poi i giovani: bisogna accompagnarli a creare il futuro. Quindi la collaborazione nella cura della casa comune nello spirito della Laudato si’.

 

Io le ho approvate, e adesso i gesuiti devono incarnarle in ogni specifica realtà locale nelle modalità più adatte e adeguate, non in modo teorico e astratto. Ecco, voi dovete applicarle qui in Congo. […]

 

Santo Padre, la fede si muove verso il Sud del mondo. I soldi no. Ha qualche paura, qualche speranza?

 

Se uno non ha speranza, può chiudere la porta e andarsene via! Tuttavia, la mia paura riguarda la cultura pagana molto generalizzata. I valori pagani oggi contano sempre di più: denaro, reputazione, potere. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il mondo si muove in una cultura pagana che ha i propri idoli e i propri dèi. Denaro, potere e fama sono cose che sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali indica come i peccati fondamentali. La scelta di sant’Ignazio sulla povertà – a tal punto da far fare un voto speciale ai professi – è una scelta contro il paganesimo, contro il dio denaro. Oggi la nostra è anche una cultura pagana di guerra, dove conta quante armi hai. Sono tutte forme di paganesimo.

 

Cfr. Esercizi Spirituali nn. 137-147.

 

Ma poi, per favore, non siamo così ingenui da pensare che la cultura cristiana sia la cultura di un partito unito, dove tutti aggruppati insieme fanno la forza. Ma così la Chiesa diventa un partito. No! La cultura cristiana è, invece, la capacità di interpretare, discernere e vivere il messaggio cristiano, che il nostro paganesimo non vuole capire, non vuole accettare. Siamo giunti al punto che se uno pensa alle esigenze della vita cristiana nella cultura di oggi, ritiene che esse siano una forma di estremismo. Dobbiamo imparare ad andare avanti in un contesto pagano, che non è poi diverso da quello dei primi secoli.

 

 

 

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