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Il coraggio di un vero cambiamento

A 50 anni dal Concilio Vaticano II

 

 

 

 

 

 

Articolo pubblicato
in Unità e Carismi
5 (2012) 41-43,
Unidad y Carismas
1 (2013) 29-31

 

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1978. Entro in una chiesa dove sono esposti, non ricordo per quale occasione, una serie di libri. Mio padre mi chiede se voglio comprarne uno. Gli rispondo: i documenti del Concilio Vaticano II. Avevo 16 anni, sono nato infatti nel giugno del 1962. Strana scelta per un adolescente, vero?

 

In quel periodo avevo incontrato un gruppo di giovani che, al di fuori delle parrocchie e con l’aiuto di due gesuiti e alcune religiose francescane, cercava di vivere il Vangelo e di capire in modo nuovo la fede cristiana. Tutti avevamo fatto il catechismo, ma la vita della Parola ci spingeva a «dare ragione della nostra speranza» (cf. 1Pt 3,15). Le risposte imparate da ragazzi non erano più sufficienti. Così la sera, prima di dormire, dedicavo un po’ di tempo alla lettura dei documenti conciliari. Tutti. Con mia grande sorpresa in qualche modo capivo ciò che leggevo. Forse era il Vangelo vissuto, e vissuto insieme con gli altri, che dal di sotto illuminava le parole del Concilio.

 

1988. Inizio lo studio della teologia. Immagino che il Vaticano II sia il punto di partenza e il riferimento principale, ma rimango deluso. I testi vengono citati e offerti alla nostra lettura, ma non c’è traccia di una ricerca teologica che parta dall’ecclesiologia di comunione. Rare le occasioni in cui ascoltiamo e dialoghiamo con i grandi teologi del Concilio. La teologia che devo imparare mi rimane estranea, serve per preparare gli esami, ma non mi aiuta a vivere il mio tempo, a dialogare con gli uomini e le donne che incontro ogni giorno, a capire ciò che accade nella storia che vivo. Grazie a Dio ho la possibilità di nutrire la mia mente con altre letture.

 

2012. Un presbitero che accolgo per un corso di esercizi spirituali mi dice: «Sono stato ordinato un anno fa e subito sono stato nominato parroco. Mi sto rendendo conto che tutto quanto ho vissuto e studiato in seminario non mi serve. Ho celebrato 40 funerali, 5 battesimi e sono demoralizzato». Mi fa tenerezza. Passare dalla formazione alla realtà è una tappa umana e spirituale dura per tutti. Ma capisco la sua sofferenza. Perché è la mia. Sono passati cinquant’anni dal Concilio, ho da poco compiuto 50 anni, sono presbitero da 18 anni, pensavo di vedere una Chiesa rinnovata… e invece mi sembra di respirare sempre più intensa un’aria di restaurazione. La cultura clericale di una visione piramidale della Chiesa è ancora lì, quasi intatta, e la comunione e il dialogo sembrano i grandi assenti o sono confinati in ambiti sempre più ristretti.

 

Mi chiedo: come mai in Europa, nonostante l’impegno della comunità ecclesiale, la fede cristiana è ormai quasi marginale? Come leggere la situazione attuale di crisi del cristianesimo, almeno in occidente, alla luce del Vaticano II? Come continuare a mettere in pratica gli orientamenti del Concilio?

 

La notte collettiva, culturale e spirituale, che tutti noi, credenti di ogni fede e convinzione, sperimentiamo sulla nostra pelle e nella nostra anima è un segno dei tempi, è un passaggio necessario al cammino che il Vangelo deve compiere per incarnarsi nella cultura europea, affinché da questo profondo dialogo nasca una nuova cultura e una “nuova evangelizzazione”? Oppure si tratta soltanto di un rifiuto della fede da parte di una società secolarizzata a cui rispondere riaffermando la “potenza” sacrale e cultuale della fede, la “forza” dell’identità cristiana e dell’appartenenza ecclesiale?

 

Dobbiamo vivere questa “assenza di Dio” come un dono, misterioso, da parte di Colui che vuole farsi incontrare lì dove in apparenza Egli sembra non-esserci? Fare nostre le domande del mondo di oggi, significherà forse sperimentare la solitudine radicale di chi è “senza Dio”, perdendo, perché donata all’altro, la “nostra” identità per ritrovarla nuova e rinnovata?

 

Il Dio abbandonato è «il Dio del nostro tempo», diceva Chiara Lubich. Gesù che sulla croce sperimenta la lontananza dal Padre è un Dio difficile da credere. Eppure Maria ha creduto, e continua a credere, nel Dio Abbandonato. Un Dio che crede nel momento della separazione e, perdendo la sua identità di Figlio, genera se stesso e tutti i suoi fratelli ad una nuova relazione di comunione con il Padre. E li consegna alla Desolata (Chiesa) che, perdendo a sua volta suo Figlio, lo riceve di nuovo in sé non più come persona singola, ma come Corpo collettivo: umanità redenta e in essa la Chiesa come segno e sacramento di unità.

 

Il Dio abbandonato ci rivela un vortice d’amore reciproco, consumato nella Trinità e in Maria, che genera l’Unità. Il Padre, infatti, è il primo a voler perdere suo Figlio per ri-trovarlo nell’Umanità (Maria). E tutto questo avviene nello Spirito che si lascia consegnare dal Padre e dal Figlio all’Umanità, affinché essa sia capace di generare Dio nella storia e sulla terra, qui «in mezzo a noi» (cf. Mt 18, 20).

 

Scrive Chiara Lubich: «Cristo è il seme. Il Corpo Mistico è la chioma. Cristo è il Padre dell’albero: mai è stato così Padre come nell’abbandono ove ci ha generati figli suoi, nell’abbandono ove S’annulla rimanendo: Dio. Il Padre è radice al Figlio. Il Figlio è seme ai fratelli. E fu la Desolata che, nel tacito consenso ad esser Madre d’altri figli, gettò questo seme in Cielo e l’albero fiorì e fiorisce di continuo sulla terra»[1].

 

Il Concilio ha fatto riscoprire alla Chiesa di Cristo la sua identità più profonda: essere un popolo «sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG, 1), «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo» (LG, 4).

 

La sfida del nostro tempo è far diventare questa realtà un’esperienza vissuta e, perché vissuta, comunicabile. Il primo passo è distaccarci dal modo di essere Chiesa costruito negli ultimi 500 anni. Avere il coraggio di fare questo passaggio, o meglio, di lasciarci condurre in questo passaggio dal Risorto che cammina tra noi.

 

È Lui che ci ha donato la spiritualità di comunione che ha lo scopo di condurci verso un nuovo modo di essere Chiesa, per costruire, come diceva nel 1975Chiara Lubich, “un’infinità di Chiese” mariane, domestiche e popolari: «Non sarà forse Gesù in mezzo in queste Chiese volanti, e che possono andare in tutto il mondo, l’anima del mondo di domani? E non sarà forse che Dio permette questa invasione di un mondo ateo, ma che costruisce anche qualche cosa, per far sì che tutte le verità (…) ritornino alla fonte, e cioè a Gesù? E questo attraverso sempre piccole cose, come Gesù che nasce in una stalla: attraverso due o più: due o più ragazzi, due o più ragazze, due o più signore, la mamma e un figlio, la nuora e una suocera, due o più. L’idea di poter costruire con Gesù-persona in mezzo a noi un’infinità di Chiese, è l’idea che più dà alla testa a me in questi giorni e vorrei comunicarla a tutti voi (…) Io vorrei (…) comunicarvi soprattutto la passione che invade il mio cuore, di invadere l’umanità, di costruire in tutta l’umanità tutte queste Chiese»[2].

 

Celebrare il Concilio significa prendere sul serio l’ecclesiologia di comunione e iniziare davvero a ri-formare ogni aspetto della vita della Chiesa. È quanto la famiglia umana attende: vedere nella Chiesa il riflesso della sua bellezza.

 

Post scriptum. Qualcuno ha letto questo articolo e non gli è piaciuto, perché non parla del passaggio epocale che il Concilio Vaticano II ha rappresentato per la Chiesa. Perché non si dice le novità che il Concilio ha portato nella liturgia, nella teologia biblica, nel dialogo ecumenico, interreligioso, con le persone di altre convinzioni, negli orientamenti pastorali ecc. Perché, è stato spiegato, non ho vissuto il periodo pre-conciliare.

 

Grazie a Dio conservo ancora una spinta ideale che mi fa sperare in un futuro migliore! E non posso che leggere questi 50 anni dal mio punto di vista. Ho 50 anni, non ho esperienza diretta della Chiesa prima del Vaticano II e nella mia stessa condizione, ormai, si trovano tantissimi credenti. Soprattutto giovani.

 

Certamente a tutti noi va testimoniato il valore del Concilio e le novità che ha introdotto. Ma, poiché per noi quelle novità sono il “nostro” modo abituale di essere Chiesa, oggi fortemente criticato, i testimoni dovrebbero aiutarci a trovare in questo periodo storico (che non è più quello di 50 anni fa) le strade per continuare a mettere in pratica il Concilio. Come? Avendo anche il coraggio di riconoscere i limiti della propria generazione e incoraggiandoci a superarli.

 

La sensazione, invece, è che i testimoni (che hanno vissuto la stagione conciliare nella loro gioventù), senza rendersene conto tentino di riportarci indietro nel tempo. Per me, cristiano adulto di oggi, la domanda non è sul passato, ma sul futuro e sul presente, su come poter raccogliere il testimone dalla generazione precedente e passarlo a quella che verrà dopo di me. A condizione, e qui è il punto critico (e in certi contesti drammatico), che la generazione che mi precede voglia davvero passarlo il testimone.

 

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[1] C. Lubich, Guardare tutti i fiori, in Id., La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, p. 76.

[2] Id., cit. in Unità e Carismi XIX (2009/4) 15.