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by Paolo Monaco sj

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Comunione

Lo sguardo del cuore

Catechesi sulla spiritualità di comunione, IV

 

 

 

 

 

Parrocchia di
Arangea
(RC)
9.04.2003

 

Prima

 

Seconda

 

Terza

 

 

 

 

 

Communion
and Ignatian
Spiritual
Exercises

 

 

 

 

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Gli strumenti
della spiritualità
di comunione

 

L’oggi di Dio
e della Chiesa

 

 

Saper «fare spazio» al fratello

 

Respingendo le tentazioni egoistiche

 

Strumenti per mettere in pratica
la spiritualità di comunione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAPER «FARE SPAZIO» AL FRATELLO

 

Novo millennio ineunte, 43

 

«Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.

 

Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come «uno che mi appartiene», per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia.

 

Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto.

 

Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie».

 

Gal 6,1-5 «Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione. Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo. Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri troverà motivo di vanto: ciascuno infatti porterà il proprio fardello».

 

1Cor 9,16-23 «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro».

 

Mt 20,25-28 «Gesù, chiamatili a sé, disse: I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti».

 

 

Chi è il fratello cui «fare spazio»?

 

S. Paolo dice: «mi sono fatto servo di tutti». «Fare spazio» al fratello significa vedere tutti i nostri prossimi come nostri padroni: il servo siamo noi e i padroni gli altri. E come tale è lui, il fratello, che deve aver la prima parola, essere onorato, obbedito, perché è lui che comanda.

 

S. Paolo dice ancora: «mi sono fatto tutto a tutti». «Fare spazio», quindi, significa «farsi uno», «vivere l’altro». «Fare spazio» è l’espressione che riassume quegli atteggiamenti positivi verso il fratello che il Papa ha proposto in questo brano della NMI: «condividere le sue gioie e le sue sofferenze… intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni… offrirgli una vera e profonda amicizia».

 

Questi atteggiamenti esprimono quel sentire del cuore che, orientato e illuminato dalla Trinità in noi e nel fratello, ci spinge a vivere il comandamento dell’amore reciproco, ci fa essere con Gesù in mezzo a noi una cellula del Corpo mistico e ci permette di essere Chiesa-comunione, testimoni dell’amore.

 

 

Come farsi uno?

 

Mettere il fratello in condizione di amare per primo, di agire per primo, di avere l’iniziativa. Per questo dobbiamo metterci a sua disposizione, accostarlo vuoti completamente di noi stessi e spostare per lui anche ciò che possediamo di più bello, di più grande, per essere di fronte a lui «nulla» come Gesù servo.

 

In tal modo il fratello può manifestarsi, perché trova chi lo accoglie: può donarsi. Ma, poiché il «nulla» in noi è un «nulla d’amore», e non certo un nulla sinonimo di inesistenza (o ancora peggio, frutto di un insano complesso di inferiorità), lo Spirito Santo, che vigila presente in noi, ci illumina e ci permette di guidare la conversazione perché il fratello possa completamente aprirsi.

 

Non solo, ma ci dà modo di cogliere quel qualcosa di «vivo» che è nel cuore del fratello: nel senso soprannaturale, fiammella della vita divina in lui; o «vivo» semplicemente nel senso umano, espressione cioè di quei valori che il Signore, creandoci, ha disseminato in ogni anima umana.

 

E sul quel qualcosa di «vivo» noi possiamo – servendo – innestare con dolcezza, con amore, con illimitata discrezione, quegli aspetti della verità, del messaggio evangelico che portiamo e danno pienezza e completezza a ciò che quel prossimo già crede e sono da lui spesso attesi, aspetti che trascinano con sé, poi, tutta la verità.

 

Anzi, se si pensa che lo possa desiderare, possiamo offrirgli con garbo, senza mai imporre, di partecipare ad un incontro adatto per lui e così piano piano introdurlo nella comunità della Chiesa. Così il fratello ha prima dato e noi, poi, abbiamo fatto altrettanto, e la fiamma del vangelo va a beneficio di tanti.

 

 

Farsi uno e Gesù in mezzo

 

Quando uno piange, dobbiamo piangere con lui. E se ride, godere con lui. E così è divisa la croce e portata da molte spalle, e moltiplicata la gioia e partecipata da molti cuori. «Farsi uno» col prossimo è la via maestra per «farsi uno» con Dio. Strada maestra perché in questa carità è la fusione dei due primi e principiali comandi.

 

«Farsi uno» col prossimo per amore di Gesù, con l’amore di Gesù, finché il prossimo, convinto dall’amore di Dio in noi, vorrà «farsi uno» con noi, in un reciproco scambio di aiuti, di ideali, di progetti, di affetti.

 

Fino a stabilire fra i due quegli elementi essenziali perché il Signore possa dire di noi: «Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Fino cioè a garantirci, per quanto sta in noi, la presenza di Gesù e camminare nella vita, sempre, come piccola Chiesa in cammino, Chiesa anche quando stiamo a casa, a scuola, all’officina… in Parlamento.

 

Camminare nella vita come i discepoli di Emmaus con quel Terzo tra noi che dà divino valore a tutto il nostro agire: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino…?» (Lc 24,32). Allora non siamo noi che agiamo nella vita, miseri e limitati, soli e sofferenti. Cammina con noi l’Onnipotente. E chi resta unito a lui porta gran frutto.

 

 

Farsi uno e la nuova evangelizzazione

 

«Farsi uno» è una via privilegiata per il dialogo, lo strumento privilegiato della «nuova evangelizzazione».

 

Dialogo con i fratelli di fede, magari di altri gruppi, associazioni, movimenti presenti nella nostra comunità o nella diocesi. Dialogo con i fratelli di fede cristiani delle nostre Chiese sorelle, per sperimentare già quanto siamo uniti e lavorare per raggiungerne al più presto la piena unità.

 

Dialogo con i fratelli di fede delle altre religioni (sempre fratelli di fede sono, perché credono in Dio o sono molto sensibili ai valori dello spirito), nelle quali sono seminati i «semi del Verbo», come, per esempio, la regola d’oro del Vangelo: «Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Lc 6,31).

 

Essa è presente in tutti i testi e tradizioni delle grandi religioni. Innanzitutto nell’Antico Testamento che abbiamo in comune con i nostri «fratelli maggiori» ebrei: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tob 4,15).

 

Nell’islam: «Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso» (Hadit 13, secondo Al-Bukhari).

 

Nell’induismo: «Questa è la sostanza del dovere: non fare agli altri ciò che a te farebbe del male» (Mahabharata), o come dice Ghandi: «Io e te siamo una cosa sola. Non posso ferirti senza far del male a me stesso» (cit. in W. Mühs, Parole del cuore, Milano 1996, p. 82).

 

Dialogo soprattutto nel nostro ambiente con i nostri fratelli che lottano per la pace, la giustizia… o sono «uomini e donne di buona volontà», con i quali condividere quei valori umani universali che sono la base per costruire la fraternità umana, che nella nostra cultura occidentale esprime la preghiera di Gesù «che tutti siano uno» (Gv 17,21).

 

 

Farsi uno e le opere

 

Questo «farsi uno» più profondo, più intimo, suppone certamente il dar da mangiare a chi ha fame, il costruire ospedali per chi è ammalato. Suppone le opere, ma non si esaurisce in esse, che sono un aspetto più esterno del «farsi uno».

 

La prima opera che dobbiamo edificare è Cristo in noi, è Maria in noi. E loro sono proprio loro là dove sono «nulla» nell’abbandono e nella desolazione. E diventano per questo «tutto», pienezza: Gesù nella risurrezione e Maria, per partecipazione alla vita divina, nella sua glorificazione.

 

 

Farsi uno come Gesù Abbandonato

 

Fil 2,1-11 «Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre».

 

Vivere il «farsi uno» significa vivere il modo di amare di Gesù, «farsi uno» come Gesù ha fatto, quando da Dio s’è fatto noi, s’è fatto uomo. E Gesù si è fatto uomo «fino alla morte e alla morte di croce», cioè fino al punto di sperimentare su di sé le conseguenze del peccato, fino al punto di farsi peccato, di sentire lui il Figlio prediletto l’assenza di Dio.

 

Gesù ci ha raggiunto proprio lì, lontano da Dio, per riportarci dal Padre, per riunirci al Padre.

 

Ma per donarci questa grazia, perché noi potessimo sentire l’unione con il Padre, Gesù doveva in qualche modo non sentirla più, proprio perché donata a noi. Quando voglio fare infatti un dono ad un altra persona, il dono non me lo tengo io. Lo devo staccare da me e darlo all’altro. Devo decidere di non sentire più mio ciò che voglio donare all’altro.

 

Gesù non ha voluto sentire più sua, solo sua, l’unione con il Padre, non ne ha voluto fare un «tesoro geloso», cioè, egoistico. E l’ha donata a noi.

 

Ecco cos’è l’abbandono di Gesù: l’esperienza di «perdere Dio per Dio», perdere il suo rapporto esclusivo con Dio per ritrovare Dio insieme con noi.

 

È il vertice del farsi uomo di Dio, vertice del Dolore di Dio, vertice dell’Amore di Dio.

 

 

 

RESPINGENDO LE TENTAZIONI EGOISTICHe

 

Che cosa esige il farsi uno?

 

«Farsi uno» con il fratello non è una tattica o un modo di fare esterno; non è solo un atteggiamento di benevolenza, di apertura e di rispetto, o un’assenza di pregiudizi. È tutto questo, sì, ma con qualcosa di più. La pratica del «farsi uno» esige il vuoto completo di sé: togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa, per immedesimarci con l’altro.

 

Non si può entrare nell’animo di un fratello per comprenderlo, per condividere il suo dolore o la sua gioia, se il nostro spirito è ricco di una preoccupazione, di un giudizio, di un pensiero… di qualsiasi cosa. Il «farsi uno» esige spiriti poveri, poveri in spirito per essere ricchi d’amore.

 

Ed è qui che posso sentire male, fatica, resistenza, dolore, paura… e cedere alle «tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie». Perché non basta decidere con la mia ragione di credere in Gesù. Bisogna che poi armonizzo la mia sensibilità e affettività naturale in modo corrispondente ai suoi valori, alla sua mentalità, ai suoi sentimenti.

 

Perché io posso «far spazio» al fratello nella mia razionalità. Ma per amare il fratello come Gesù mi ha amato, per farmi uno con lui, io devo fargli spazio nella mia sensibilità e affettività, «dentro> di me…

 

 

Farsi uno e Maria Desolata

 

E qui ci viene in aiuto Maria Desolata. Se Gesù per amore del Padre e degli uomini vive il suo abbandono, Maria di fronte all’Abbandonato si sperimenta Desolata. Anche lei come Gesù deve «perdere Dio (suo figlio Gesù) per Dio (il nuovo figlio Giovanni)», deve perdere la sua unione con Gesù per ritrovare Gesù in Giovanni.

 

Sul Calvario Maria è chiamata a «fare spazio» dentro di lei a Giovanni e a tutta l’umanità, al Corpo mistico di Cristo, come nell’incarnazione aveva fatto spazio dentro di lei a Gesù. Anzi: è proprio sul Calvario che nell’abbandono di Gesù e nel sì di Maria si attua fino in fondo l’Incarnazione.

 

Per Maria è il passaggio dalla maternità naturale, fisica e singola (Gesù uomo), a quella soprannaturale, spirituale e universale (Gesù mistico in ogni uomo): è la Pasqua di Maria, che Sola, senza Dio, perché morto tra le sue braccia, deve crederLo Vivo in Giovanni.

 

Ella ha co-generato lì un altro Cristo, quello che compone il suo Corpo mistico, dove, quale Madre, appare vincolo d’unità fra tutti, unisce i figli, li fa fratelli, come a loro modo fanno le mamme sulla terra.

 

E questi figli, anche da Lei generati, hanno i lineamenti di Gesù, ma anche i suoi.

 

È il vertice del Dolore della creatura, è il vertice dell’Amore della creatura: la Desolata unita all’Abbandonato diventa Madre di Dio e dell’Umanità, Figlia nel Figlio, Testimone dell’Amore, Madre dell’unità.

 

 

Che cosa sono le “tentazioni egoistiche”?

 

Le «tentazioni egoistiche» sono quei pensieri, impulsi, sentimenti, movimenti del cuore che tentano di orientare il nostro amore verso noi stessi o verso alcune cose e persone.

 

Esse nascono dalla mia sensibilità fisico-naturale che istintivamente cerca il piacere, la propria gratificazione, il suo benessere...

 

Oppure vengono dal di fuori, cioè, sono causate in me dallo spirito cattivo, dal nemico della natura umana, dal «serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra» (Ap 12,9).

 

Egli cercherà di contrastare con tutti i mezzi possibili la mia unione con Dio e con il prossimo. Se vede che io voglio amare, mi metterà davanti false ragioni, giustificazioni, ecc. per convincermi a non amare. Se invece io non amo, mi gratificherà proponendomi sempre nuove ragioni per non farlo.

 

In modo contrario invece agisce Dio e il suo spirito buono. Se io non amo mi farà sentire il rimorso della coscienza. E se amo mi donerà la sua gioia e la sua pace.

 

Dobbiamo chiarire che «sentire non è acconsentire»: io non pecco quando «sento», ma quando acconsento con la mia libertà e volontà al mio istinto o alla tentazione del nemico.

 

Se io invece «resisto» con la mia volontà e libertà alle tentazioni che mi presenta il mio istinto e il nemico, io acquisto merito davanti a Dio, perché la resistenza alla tentazione è un modo di amare Dio.

 

Resistere non basta. Occorre anche ricominciare sempre ad amare. Quando mi accorgo che per qualche ragione, più o meno consapevole, ho smesso di amare, invece di fermarmi ad analizzarmi, chiedo subito perdono a Dio (cosa che si può fare dappertutto) e poi ricomincio nel momento presente ad amare.

 

 

 

strumenti per mettere in pratica
la spiritualità di comunione

 

Ma «resistere e ricominciare» non bastano: occorre migliorarci e correggerci. Dobbiamo impegnarci con pazienza, speranza e fiducia nella grazia di Dio e nella nostra buona volontà a cambiare noi stessi prima degli altri.

 

Quali strumenti usare affinché la «spiritualità di comunione» diventi «principio educativo» e «cammino spirituale», come dice il Papa nella NMI?

 

 

Il patto di amore reciproco

 

Il comandamento nuovo di Gesù: «Amatevi a vicenda come io ho amato voi» (Gv 15,21) è, assieme a quella dell’unità, la base della «spiritualità di comunione» perché per attuarla non basta una sola persona. Ne occorrono due o tante, una collettività, una piccola o grande comunità.

 

Non basta cioè che io e il fratello decidiamo nel nostro «singolo» cuore di essere pronti a dare la vita per l’altro. Bisogna che questa intenzione d’amore diventi esplicita, che ce lo diciamo guardandoci negli occhi, che diventi tra di noi legame, patto, alleanza, unione.

 

Se non lo abbiamo mai fatto questo patto, se non abbiamo mai fatto questa dichiarazione d’amore reciproco, forse bisogna che ne facciamo un obiettivo reale da perseguire entro un certo tempo, in modo tale che ci prepariamo l’anima per compiere un gesto così sacro, solenne, semplice, e che non è privo di difficoltà.

 

Con alcuni, infatti, sarà facile pronunciarlo; con altri occorrerà, alle volte, vincere il rispetto umano; con altri occorrerà preparare il terreno. È un atto non privo di sacrificio perché occorrerà, alle volte, vincere il rispetto umano, altre, superare l’indolenza o il tran tran spirituale in cui siamo magari caduti.

 

Bisognerà praticare l’umiltà per far tacere l’amor proprio. Ma il Signore benedirà ogni sforzo e, se poi saremo fedeli a quanto abbiamo detto, ci darà la gioia di scorgere la sua presenza, effetto dell’unità, dovunque ci giriamo. Se saremo fedeli, la «spiritualità di comunione» ci farà santi, ci trasformerà in un popolo di santi. È questo ciò che Dio vuole da noi, per la sua gloria.

 

 

Coltivare l’unione con Dio, intensificando la preghiera personale

 

Non posso pretendere che la mia capacità di amare in modo soprannaturale, di amare come Gesù, cresca da sola spontanea-mente, senza cura e attenzione da parte mia. Se voglio imparare ad amare bisogna che conosca l’Amore, viva con lui, stia con lui… come Maria meditare nel mio cuore la sua Parola.

 

Quanto devo pregare? Penso che 15 minuti al giorno sia un tempo minimo e possibile per tutti.

 

E cosa fare nella preghiera? Innanzitutto scendo in profondità dentro di me, mettendo fuori della porta del mio cuore tutto il resto, compreso me stesso… poi leggo anche solo un versetto del vangelo… quindi ascolto Gesù in me… e parlo con Lui, chiedendogli perdono, una grazia particolare, una luce per una decisione da prendere, oppure intercedendo per qualcuno… infine, magari con un Padre nostro, rinnovo la mia fede e la mia fiducia in Dio.

 

 

L’esame di coscienza

 

Prendo un difetto o un peccato particolare e per un certo tempo mi esercito su quello, cercando di vivere il suo contrario, esaminando di giorno in giorno se faccio passi avanti, se miglioro, ecc... Per esempio: sono un tipo invidioso e questo vizio mi porta a fare un certo tipo di peccati (mi lamento di me e degli altri, metto in evidenza il negativo mio e degli altri, ecc.); allora mi eserciterò nel suo contrario che è la benevolenza (dal lamento passerò a ringraziare, dal negativo al positivo, ecc.).

 

Il valore di questo esame di coscienza, sta nel fatto di cambiare me stesso un poco alla volta. Se credo di dover o poter cambiare tutto in una volta, quasi magicamente, mi sto ingannando e soprattutto non sto accettando me stesso come sono realmente.

 

Come Maria che ha ascoltato la Parola e l’ha messa in pratica giorno per giorno.

 

 

La comunione d’anima

 

Va fatta insieme con i nostri fratelli di fede, magari in gruppi piccoli, dove tutti possano dare liberamente il loro contributo personale nell’edificazione del Corpo di Cristo, mettendo in comune i beni spirituali che possediamo e concorrere così alla santità altrui come alla nostra.

 

Ricordiamo, a nostro incoraggiamento, che quello che non si comunica si perde; mentre ciò che si dona torna rafforzato nell’anima del donatore oltre che risultare di utilità per gli altri.

 

E cosa bisogna mettere in comune? In una parola potremmo dire lo stato attuale del mio rapporto con Dio e con il prossimo. Per esempio, il frutto della preghiera personale, una luce o una grazia ricevuta da Dio sulla propria vita, una richiesta di aiuto se ho un dubbio di fede, un’esperienza della Parola…

 

Come Maria che non tiene per sé il frutto dell’incontro personale con Dio, ma lo comunica ad Elisabetta con il Magnificat.

 

S. Ignazio di Loyola parla in una sua lettera della «falsa umiltà», che sarebbe un’arma che il diavolo usa per danneggiare le persone e dice: «Vedendo il servitore del Signore tanto buono e umile che, pur compiendo la volontà di Dio, pensa di essere del tutto inutile e considera le sue debolezze e non la sua gloria, gli fa pensare che, se parla, di qualche grazia concessagli da Dio N. S., di opere, propositi e desideri, pecca con altra specie di vanagloria perché parla a suo onore. Procura quindi che non parli dei benefici ricevuti dal suo Signore, impedendo così di produrre frutto in altri e in se stesso, dato che il ricordo dei benefici ricevuti aiuta sempre a cose più grandi» (Lettera del 18 giugno 1537 in Epistolario I, 99-107).

 

 

L’ora della verità

 

Se mi impegno a migliorarmi e correggermi da solo, posso arrivare fino a un certo punto. Il fratello invece mi può aiutare moltissimo, perché vede di me cose che io nonostante tutti i miei sforzi non vedo. E io di lui.

 

Non si tratta di discutere se il fratello ha quella virtù o quel difetto. Né di fare il processo al fratello. Si tratta di comunicare al fratello per amore e con amore quello che mi sembra di riscontrare in lui. Mi sembra, perché se è vero che posso vedere qualcosa che lui non vede, il mio punto di vista è sempre esterno. Allora è bellissimo e dà una grande gioia e unisce tantissimo, dirsi reciprocamente il positivo e il negativo (una virtù, un difetto…) che vediamo uno dell’altro.

 

Per mettere in pratica questo strumento ci vuole la disposizione d’animo adatta: tanta carità reciproca, umiltà, discrezione, prudenza. Devo pensare di essere sempre un servo inutile e infedele, di essere nulla, perché tale è ognuno dinanzi a Dio. Così né mi turberò, né mi esalterò per tutto quanto mi verrà detto.

 

Sarà utile la presenza di uno che abbia già una certa esperienza…

 

Come i primi cristiani: Col 3,16; 2Cor 13,11; Eb 10,24-25.

 

 

Il colloquio personale

 

La preghiera personale, la comunione d’anima e la correzione fraterna ci aiutano, ma non bastano: senza dubbio nessuno conosce meglio noi di noi stessi. Noi siamo a conoscenza dei nostri desideri di perfezione, delle luci che ci consolano, dei propositi che di tanto in tanto formuliamo, dei risultati, ma anche delle ombre che ci turbano, delle paure e della lotte che sosteniamo per andare avanti.

 

Ci sono cose così personali che soltanto personalmente posso affrontare, ma non «da solo». E allora è bene parlarne con qualcuno che mi possa aiutare. È un dialogo fraterno nel quale Gesù in mezzo a noi, presente per la carità reciproca, può darci quella luce che illumina la mia vocazione, oppure quella forza per tirar fuori certi pesi che condizionano la mia libertà e volontà, i miei atteggiamenti, comportamenti e scelte…

 

Come Gesù che nel Vangelo fa tanti colloqui personali, come per esempio, quello con la Samaritana o con Nicodemo, ecc.

 

Essere testimoni dell’amore, vivere la «spiritualità di comunione»: così l’amore illuminerà sia la mia dimensione individuale, privata e interiore, sia quella comunitaria, pubblica ed esteriore.

 

Così io e il fratello ci faremo santi insieme.

 

Inizio

 

 

 

 

 

 

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