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by Paolo Monaco sj

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La Squadra

Una partita nuova

 

 

 

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La Banda

 

Il mare

 

Forse non tutti sanno che negli anni 1977-79 a Ciampino ci furono due squadre di pallacanestro. Una, famosa e forte. L’altra, la mia, nata quasi per caso nella Parrocchia S. Cuore.

 

Erano tre anni che andavo in piscina. Tre volte a settimana. Un giorno sì e un giorno no. Trenta minuti di ginnastica a corpo libero e 40/60 minuti di vasca. Le vasche non si contavano più. Avanti e indietro, indietro e avanti. Tanto stile libero, abbastanza rana, poco dorso (non so perché mi veniva sempre un crampo al piede sinistro), un accenno di farfalla (troppo faticoso).

 

L’istruttore dal bordo della piscina ci correggeva, ricordo ancora il fischio con il quale richiamava la nostra attenzione. Qualche volta ci faceva uscire dall’acqua, ci faceva stendere sul bordo, oppure sul blocco di partenza e a secco ci faceva provare i movimenti.

 

Ogni tanto facevamo degli scatti sui 25 metri. 17 secondi era il mio record. L’istruttore un giorno mi chiese se volevo entrare nella squadra agonistica. Non ho mai capito quale fosse il motivo. La cosa però mi inorgoglì. Poi pensai: già ora tre pomeriggi in piscina. In agonistica, tutti i giorni e il sabato o la domenica le gare. Troppo. Il nuoto sarebbe diventato il mio solo interesse. Io invece già da tempo ero impegnato con la banda musicale.

 

Dissi di no. Però mi rimase dentro il desiderio di un impegno agonistico, la voglia di confrontarmi con altri. Quando nuoti sei solo. Avanti e indietro. Una bracciata dopo l’altra, una vasca dopo l’altra.

 

Erano passati tre anni così. In estate, al mare, avevo goduto di tutti i benefici di questa intensa attività invernale. Imparai a giocare con il mare. Però dopo tre anni non avevo più stimoli. Era arrivato il momento di decidere. Andare avanti, magari prendendo anche qualche brevetto, insomma fare del nuoto una possibilità per il futuro, oppure cambiare. Decisi di cambiare.

 

In parrocchia avevano deciso di fondare una squadra di pallacanestro. Bruno, suo fratello Mimmo, Roberto, erano miei amici d’infanzia. Giocavamo insieme per strada, tra via Gorizia e via della Repubblica, tra l’aeroporto e Piazza della Pace. Una strada tranquilla, poche macchine allora, marciapiedi in terra… e tanta fantasia.

 

Chi portava il pallone, chi due racchette da tennis con le palline, chi le bocce, chi una fune per fare la rete di pallavolo, chi le biciclette per giocare a guardie e ladri, chi le tamburelle, chi le bilie… A tutto si giocava. A un certo punto mamma mi chiamava dal balcone: “Paolo”. Era il segnale di rientro che io le facevo ripetere almeno due o tre volte.

 

Divertente poi era esplorare le villette abbandonate, scavalcare i recinti o passare attraverso qualche buco nella rete. Andavamo soprattutto in una villetta, dove c’era un albero di melograni. Avevamo paura, ma era una pericolosissima e affascinante avventura.

 

Poi c’era il periodo delle “cartuccette”. Prendevamo i semi degli alberi lungo la strada, li mettevamo in bocca e li sputavamo attraverso un pezzetto di tubo di plastica, qualche volta prendendo di mira le ragazze che passavano. E tra di noi. Qualche volta usavamo i cartoccetti di carta. Raramente, perché eravamo dei bravi ragazzi, mettevamo uno spillo nel cartoccetto e cercavamo di colpire il centro di un bersaglio di cartone.

 

La bellezza, la libertà di questi giochi durò uno o due anni, mi pare. Poi alcuni più grandi andarono a Roma per la scuola e noi più piccoli pure, ma a Ciampino. E il gruppo si sciolse. Ci perdemmo di vista. Strano a dirsi per chi viveva nella stessa strada.

 


 

Quando però sentii che nella squadra di pallacanestro c’erano Bruno, Mimmo e Roberto, pensai che fosse proprio il momento giusto per ricominciare insieme una nuova avventura. Mi presentai. Bruno, che faceva l’allenatore e aveva più esperienza di tutti noi, avendo giocato nella squadra di Roma, mi accolse a braccia aperte.

 

E cominciammo. Ci disse che il primo anno non avremmo fatto campionato. Delusione. Che ci saremmo allenati, che avremmo imparato a essere una squadra. Questo era bello e nuovo per me.

 

La prima cosa che feci fu comprare le scarpe. Le scarpe! Con mia madre andai da Nautiross, in via Monte Grappa. Cercavo le All Stars, le mitiche scarpe dei campioni americani. Le comprammo, anche se costavano parecchio. Poi prendemmo una bellissima tuta verde, che mi ha accompagnato per circa 25 anni.

 

Ma le scarpe! Verdi e bianche, comode, come avere le ali ai piedi. Le mettevo e mi sembrava di essere un campione americano della NBA che volava da un canestro all’altro! Mitiche. E poi erano intonate con i colori sociali della squadra: verde e giallo. Praticamente brasiliani. Con le nostre tute e il nostro completo verde-giallo eravamo veramente belli.

 

E imparai la pallacanestro. Posizione di base. Spostamenti a destra, a sinistra, in avanti, indietro. Ne avevo fatta tanta di ginnastica in piscina che quello era il minimo.

 

Il difficile era prendere in mano la palla. Cosa dovevo farci. Intanto era pesante. Mica facile da gestire, da tirare. Bruno, che era un grande tiratore, ci stonava la testa per insegnarci la corretta posizione di tiro. Corpo diretto verso il canestro, occhi sul canestro, piedi e spalle paralleli al canestro, mano destra dietro la palla, mano sinistra a lato, portare indietro il braccio destro e lanciare. Sembra facile!

 

Poi il palleggio. La palla scappava da tutte le parti. Anche perché il campo era fatto di asfalto, con certe buche. Dimenticavo. Il campo era stato di fatto abbandonato per molto tempo e i canestri non esistevano. All’inizio quindi non si tirava.

 

Palleggio e passaggi, palleggio e passaggi. Palleggio con la mano destra, con la mano sinistra, avanti, indietro, giravolta. Passaggio diretto al petto a due mani, tirare la palla e le braccia in parallelo. Al petto! gridava Bruno, ma non era facile, certe volte la palla andava dove voleva lei, mica dove volevo io. Passaggio a terra, di lato, con una mano, sopra la testa.

 

E poi il mitico terzo tempo. Tre passi nell’aria, un occhio al canestro e la mano che appoggia con grazia la palla al tabellone. Canestro! Facile. Più o meno. Da destra, da sinistra, in sottomano, gancio, passando sotto il canestro (questo non era facile).

 

Poi finalmente misero i canestri, nuovi, e cominciammo a giocare, imparando a muoverci come una squadra. Difesa e attacco, attacco e difesa. Cinque contro cinque. Un attimo e via. Mi piaceva. Muovermi insieme con gli altri, con la coda dell’occhio sapere sempre dove stavano i miei compagni. E gli avversari naturalmente.

 

Piano piano feci amicizia con i miei compagni. Soprattutto uno. Carlo. È diventato mio fratello. Cominciammo a parlare della nostra ricerca di Dio. Mi invitò in un gruppo. Leggemmo la Parola di vita, commentata da Chiara Lubich.

 

Era la primavera del 1978. L’inizio di una partita nuova.

 

(continua…)

 

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