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by Paolo Monaco sj

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Arte > Racconti

Pane, Eucaristia e fraternità

Breve percorso nella memoria del cuore

 

 

 

Pubblicato
su
«Il pane
degli Angeli»,

«Quaderni di
Eptagonos
» 2009,
pp. 20-21.

 

 

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Il pane non si butta, non si spreca, va mangiato tutto. Non so se mio padre o mia madre, o i miei nonni, mi abbiano insegnato questo. Eppure, ogni volta che prendo una fetta di pane, avverto una voce che mi dice di mangiarla tutta. Così come il cibo che metto nel piatto.

 

Il pane non si butta, non si spreca, va mangiato tutto. È una voce che mi piace ascoltare, non la sento invadente o autoritaria. Mi dona il senso della misura, mi spinge a chiedermi se quel pezzo di pane è per me necessario, mi fa ascoltare più profondamente il mio bisogno di nutrirmi e mi aiuta a superare certe volte il mio istinto.

 

Se manca il pane a tavola, mi sembra che tutto il resto, anche il miglior alimento, non abbia valore. Manca il sapore. Viene meno la sapienza. Non trovo il senso. A volte, devo confessarlo, prendo qualche porzione di cibo in più, per mangiare un pezzo di pane in più. Se il pane è buono, si intende.

 

Quando mia nonna ci portava il pane di grano, cotto nel forno a legna, era una festa. Guardavo la pagnotta rotonda, grande, profumata, ed ero felice. Un sapore antico, intenso, piacevole. Bastava un po’ d’olio fatto in casa e non avevo bisogno d’altro. Mi sentivo nutrito, sazio. Mio nonno, invece, preferiva inzuppare il pane nel vino rosso. Una forza. Mio nonno e il pane pieno di vino, uno insieme all’altro.

 

 

C’è un testo di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, scomparsa più di un anno fa, che mi ritorna nel cuore, mentre scrivo queste parole. Si intitola “Uomo accanto a uomo” (La dottrina spirituale, Roma 2006):

 

Ecco la grande attrattiva

del tempo moderno:

penetrare nella più alta contemplazione

e rimanere mescolati fra tutti,

uomo accanto a uomo.

Vorrei dire di più:

perdersi nella folla,

per informarla del divino,

come s’inzuppa un frusto di pane nel vino.

Vorrei dire di più:

fatti partecipi dei disegni di Dio

sull’umanità,

segnare sulla folla ricami di luce

e, nel contempo, dividere col prossimo

l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.

Perché l’attrattiva

del nostro, come di tutti i tempi,

è ciò che di più umano e di più divino

si possa pensare:

Gesù e Maria,

il Verbo di Dio, figlio d’un falegname,

la Sede della Sapienza, madre di casa.

 

 

Questo testo, quasi un canto poetico, forse è uno dei primi brani, se non il primo, che ho letto di Chiara, circa 30 anni fa.

 

Avevo appena conosciuto un gruppo di ragazzi che a Ciampino volevano vivere il Vangelo. Con loro il Vangelo divenne bello, affascinante, vero e le parole di Chiara diventarono il mio, il nostro, stile di vita. In famiglia, a scuola, per strada, giocando, in ogni momento potevo essere quel “frusto di pane nel vino”, potevo impegnarmi a “dividere col prossimo l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie”.

 

Così capitò un giorno che spesi gran parte del pomeriggio per ascoltare un ragazzo, poco più grande di me, che mi raccontava la sua esperienza di tossicodipendenza. All’inizio avevo paura. Poi, ricordando le parole di Chiara, lo ascoltai fino in fondo. Non potevo far nulla, nemmeno convincerlo a smetterla con la droga. Però lui fu contento che io lo avessi ascoltato. In quel momento io vidi in lui un fratello da amare. E lui vide in me un fratello che non lo giudicava o lo teneva a distanza.

 

Molti anni dopo, a Palermo, mi trovavo nella casa delle Suore di Madre Teresa. Un loro ospite era scappato via e si era seduto in mezzo alla piazza, sul marciapiede, gridando e imprecando. Le religiose mi chiesero una mano. Cosa fare? Mi avvicinai e mi sedetti vicino a lui sulla strada, in mezzo alla piazza. Ogni tanto qualcuno passava e ci osservava. Qualche cane ci girava attorno. Non dissi nulla. Ad un certo punto lui mi guardò, io guardai lui, si calmò e ritornammo insieme a casa.

 

Il momento più intenso accadde a Reggio Calabria. Una sera, come altre, presiedevo la celebrazione della messa. Ad un certo punto, poco prima delle letture, entrò Mohammed, uno dei tanti fratelli musulmani che due volte la settimana venivano nell’ambulatorio dentistico per farsi curare gratuitamente. Appena entrato, venne verso di me, dicendo a gran voce che voleva pregare.

 

Qualcuno si alzò per allontanarlo, ma lui, nonostante avesse bevuto, fu più svelto e si avvicinò a me. Momento di panico e di tensione nell’assemblea. Guardai però il tabernacolo e pensai: Gesù, tu sei lì, ma sei anche qui. Così lo feci sedere accanto a me. Mi disse che voleva pregare Gesù. E pregammo insieme. Poi lo invitai a rimanere con me. Alla fine della messa, uscendo, un mio confratello lo avvicinò e parlò con lui. Qualche giorno dopo, venne in comunità e lo aiutammo, perché voleva trasferirsi in un’altra città, dove vivevano alcuni suoi parenti.

 

 

Brevi attimi di fraternità. Possibili. Spezzare il pane sulla tavola, ricevere Gesù nella comunione, amare l’uomo che mi è accanto, alla luce del Vangelo e delle parole di Chiara, mi sembrano una sola realtà.

 

Gesù, il Pane, come radice e compimento della “fraternità”: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). È una parola che, prima di ogni cosa, vuole guarire i rapporti: prima della celebrazione religiosa, di un consiglio comunale, di una riunione di partito, di una assemblea di classe, di un incontro di studio, di una partita di calcetto…

 

Oggi siamo coscienti che il mondo unito è sempre di più la prospettiva reale della nostra convivenza umana, dei rapporti tra le nazioni, i popoli, i governi. L’umanità cerca, desidera, aspira, intuisce un “di più”. Però, ad un certo punto, più in là, non si riesce. Rimane uno scarto, un passaggio oscuro, manca ancora qualcosa che sappiamo esserci, ma non sappiamo come arrivarci. La fraternità sembra realizzata, eppure si sfugge tra le mani e dal cuore.

 

Chiesa e società, unità e fraternità, pane-corpo e vino-sangue dell’uomo-Dio, Gesù. È lui che apre il cammino della storia di ciascuno e dell’umanità a quel “di più” della fraternità. Apre un passaggio, Pasqua, attraversa la notte oscura, prende su di sé il dolore di un bi-sogno mancato e risponde. Come? Morendo per amore, facendosi spazio vuoto pieno d’amore, che sente in sé tutto quel dolore e lo abbraccia, trasformandolo in sé e riempiendolo di sé, amore.

 

Chi vuole realizzare la fraternità tra gli uomini, ha una sola via: rimanere fratello di ogni uomo, sorella di ogni donna, nonostante ogni dolore, ferita, morte che il fratello o la sorella possano dargli.

 

Questa è la strada di Gesù, uomo-mondo, fratello nostro.

Questa può essere la mia strada, la nostra strada.

 

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